GORIZIA ED IL FRONTE DELL’ISONZO NELLA GRANDE GUERRA


Organizzazione sanitaria e guerra di trincea in un complesso di destini umani.

Il fronte dell’Isonzo, con Gorizia città simbolo, è stato l’epicentro degli avvenimenti bellici che coinvolsero il Regno d’Italia nella Grande Guerra. Sul Carso nei pressi del monte San Michele conquistato, assieme alla città di Gorizia, nella sesta battaglia dell’Isonzo, vi sono molti cippi commemorativi che ricordano le tante Brigate impiegate nel conflitto ed i cui nomi corrispondono a numerose città italiane capoluogo di provincia e quindi anche sede dei nostri ordini professionali.

Abbiamo cercato di descrivere quali fossero l’organizzazione della sanità militare sul fronte e l’impegno e la dedizione dei medici e del personale sanitario. Il percorso storico è di Lucio Fabi che fa una analisi dettagliata, oggettiva ed anche critica della assistenza sanitaria al soldato, dalla trincea agli ospedali da Campo.

 

Il percorso emozionale è caratterizzato dalle testimonianze di due ufficiali medici: il capitano Gregorio Soldani che nel suo diario annota casi clinici, sentimenti e senso di profonda pietà verso la sofferenza degli uomini che sta cercando di curare, ed il capitano medico Floriano Ferrazzi, che con le sue fotografie documenta la vita a ridosso della prima linea.

È d’altronde doveroso il richiamo al fante Ungaretti Giuseppe, volontario nella Brigata Brescia, che su questo fronte ed in questi luoghi si riconobbe “docile fibra dell’universo”.

 

Nella Provincia di Gorizia che attualmente conta 140.000 abitanti, sono sepolti quasi 180.000 soldati provenienti da tutta Italia ed in particolare nel

·        Sacrario di Redipuglia: 39.857 caduti identificati e 60.000 caduti ignoti;

·        Sacrario di Oslavia: 56.741 caduti di cui 36.000 ignoti e 540 soldati austro ungarici;

·        Cimitero Austro-Ungarico di Fogliano: 15.550 caduti.

 

Dal giugno1915 all’autunno del 1917 Italiani ed Austroungarici si affrontarono, in uno scontro atroce e spietato, in dodici battaglie con centinaia di migliaia di caduti e milioni di feriti.

Il sacrificio degli uomini ed il cinismo dei comandi furono spaventosi e l’orrore fu esasperato dall’impressionante impiego delle artiglierie nonché da quello dei gas e delle mine.

 

Una riflessione su tali eventi si basa necessariamente sul recupero del passato che non può essere fissato nei toni del bianco o nero, sulla valutazione di giusto o sbagliato o sul giudizio tra torto e ragione.

Letture superficiali o demagogiche possono divenire strumentali o assecondate a ideologie che influenzano storia e coscienze.

 

Molti furono coloro che sulla scia dei miti risorgimentali, condivisero idee interventiste e trascinati dalla retorica bellicista d’dannunziana e dalle idee futuriste, considerarono con esaltazione la guerra.

Marinetti scriveva nel 1915: (Manifesto futurista...)

 

Noi futuristi, che da più di due anni glorifichiamo... l’amore del pericolo e della violenza, il patriottismo e la guerra, sola igiene del mondo, siamo felici di vivere questa grande ora futurista d’Italia... Orgogliosi di sentire uguale al nostro il fervore bellicoso che anima tutto il Paese, incitiamo il Governo italiano, divenuto finalmente futurista, ad ingigantire tutte le ambizioni nazionali... Poeti, pittori, scultori, e musici d’Italia! Finchè duri la guerra, lasciamo da parte i versi, i pennelli, gli scalpelli e le orchestre! Son cominciate le rosse vacanze del genio.

 

Nulla possiamo ammirare, oggi, se non le formidabili sinfonie degli shrapnels e le folli sculture che la nostra ispirata artiglieria foggia nelle masse nemiche. Quando poi, i singoli uomini giunsero in trincea, vennero “macellati” dalle “formidabili sinfonie di shrapnels”.

 

 

E così molti artisti con ideali futuristi, travolti dalle esperienze di guerra, segnati dalla disumana sofferenza che avevano conosciuto, si avvicinarono alla Nuova Oggettività Attivista.


Non le idee ma gli uomini hanno creato la storia con complessi intrecci dei loro destini.

Giuseppe Ungaretti, nei versi del Porto Sepolto, in un diario autobiografico riuscì a trasferire l’esperienza dolorosa del fronte in un messaggio universale di poesia.

 

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Otto Dix si arruolò entusiasticamente volontario nell'esercito tedesco. In qualità di sottufficiale combatté sia sul fronte occidentale, contro gli eserciti inglese e francese, che sul Fronte Orientale, contro l’esercito russo; nel corso della guerra fu ferito e decorato più volte; l’esperienza della guerra lo scioccò profondamente, trasformandolo in un convinto pacifista.

Più di 10 anni dopo elaborò il Trittico della Guerra, dove il ricordo straziante dell’esperienza passata già si incrocia con la visione apocalittica del futuro.

 

Non è più un Dio ad essere rappresentato, né le virtù, ma l’atrocità della guerra.

 

Il richiamo all'arte religiosa non è casuale e accomuna la Passione di Cristo a quella del Soldato: nel pannello a sinistra la salita al Calvario di soldati che camminano verso il loro tragico destino; nel comparto centrale l’esito di un bombardamento che ha violentato e annientato ogni cosa fino a martirizzare la carne dell’uomo crocifisso, in alto.

 

Il paesaggio è devastato, come lo sono quei corpi esanimi e tumefatti.

 

Nel pannello di destra, un soldato aiuta con vigorosa determinazione i sopravvissuti.

 

 

Sotto, il simulacro di Cristo sepolto si è trasfigurato nelle salme dei caduti, di tutti i caduti, che abbiamo il dovere di ricordare con umano e profondo rispetto.

LE FERITE DELLA GUERRA GUERRA DI TRINCEA E STRUTTURE SANITARIE NELL’ESERCITO ITALIANO DEL 1915-1918

Le ferite della Guerra di trincea e strutture sanitarie nell'esercito italiano del 1915-1918 di Lucio Fabi La Grande Guerra (1914-1918) è stata la prima guerra totale del mondo contemporaneo.

La società dell’epoca entrò in un conflitto capace di mobilitare nazioni e popoli, eserciti e popolazioni, entusiasmi e sforzi produttivi all'interno di uno scontro dalle proporzioni epocali, che portò a morire sul campo di battaglia o negli ospedali delle retrovie circa dieci milioni di soldati, almeno altrettanti vennero seriamente lesionati nel fisico o nella psiche, mentre un numero ancora più alto di civili (oltre venti milioni di morti) vennero stroncati dalle malattie e dalle privazioni direttamente causate dal conflitto, tra le quali ancor oggi emerge, con nomi diversi, nella memoria collettiva dei vari paesi, la terribile epidemia influenzale denominata in Italia “Spagnola”.

La prima guerra di massa del Novecento venne combattuta in gran parte in trincea, per la conquista della trincea avversaria.

 La tecnologia bellica di quel tempo produsse una combinazione di applicazioni industriali che aumentarono enormemente le possibilità difensive della guerra di posizione, mentre all'opposto gli attacchi rimanevano quasi sempre ancorati a disposizioni tattiche che prevedevano invariabilmente lo sfondamento frontale e l’occupazione delle difese avversarie.

 

Questo semplice assunto costò la vita a milioni di uomini mandati a morire davanti ai reticolati nemici, colpiti dal fuoco delle mitragliatrici e delle artiglierie, nonché produsse un numero incalcolabile di feriti e mutilati.

 

Si trattò di una guerra terribile, che nell'immaginario collettivo viene riassunta soprattutto nell'esperienza della trincea, ma che più correttamente riguarda gli articolati sistemi di conduzione degli eserciti contrapposti, tesi ad ottimizzare le risorse umane e produttive a disposizione, con l’obiettivo al contrario di sconfiggere, fiaccare e usurare quelle dell’avversario.

Tra questi sistemi, un ruolo di primo piano, ancor oggi in gran parte misconosciuto, spetta all'articolato piano di intervento sanitario che tutti gli eserciti dislocarono lungo i fronti in cui combatterono, con l’intento di alleviare, per quanto possibile, le perdite del campo di battaglia.

 

La lotta compiuta dai medici e dai sanitari contro le conseguenze del terrificante fuoco di distruzione della trincea rappresentava non tanto, o non soltanto l’obiettivo di “riparare” e restituire efficienza alla macchina bellica, quanto piuttosto il tentativo, non sempre riuscito, di rispondere per quanto possibile efficacemente alla devastazione fisica e psichica del campo di battaglia.

 

La lotta era in effetti impari: i mezzi e le conoscenze della scienza medica d’inizio secolo potevano poco o nulla di fronte all'impressionante massa delle ferite prodotte dalla guerra.

 

Non tanto perché queste si differenziassero significativamente, per origine e qualità, da quelle affrontate all'epoca dalla pratica medica, quanto piuttosto perché si presentarono in un numero così rilevante di casi da mettere a dura prova le strutture sanitarie militari e civili, che non riuscirono a rispondere adeguatamente alla massiccia e per certi versi non preventivata domanda di intervento che proveniva dai reparti combattenti.

Le ferite del campo di battaglia non esaurivano infatti il quadro clinico dell’intervento sanitario militare italiano.

Oltre cinquemila militari italiani e non meno di diecimila prigionieri austro-ungarici morirono per il colera tra il 1915 e il 1916, e complessivamente nell'esercito italiano furono circa 100.000 i decessi per malattie varie come meningite, tubercolosi, tifo, malaria, colera, influenza spagnola.

 

Le statistiche sanitarie individuano inoltre un’alta mortalità per malattie respiratorie e patologie infettive indotte dalla promiscuità, dalla cattiva alimentazione e dalle scarsissime condizioni igieniche della trincea. Ugualmente impressionante il numero dei colpiti da shock da trincea e altre malattie nervose.

 

L’impossibilità di rispondere efficacemente al bisogno di cure dei militari a loro affidati non mancò di produrre, in molti medici, un sentimento di inadeguatezza che spesso veniva giustificato dalla straordinarietà della situazione contingente, del tutto “fuori della norma” per i parametri sanitari dell’epoca.

 

Ci furono però anche molti medici che cercarono nelle pieghe del sistema sanitario militare di porre per quanto possibile un limite al manchevole funzionamento di un intervento che, se da un lato si trovava sopraffatto dall'enorme quantità delle prestazioni richieste, dall'altro si adeguò forse troppo sollecitamente alle regole e alle disumane condizioni imposte dalla guerra di massa, che tendeva a sottovalutare le risorse umane, in quanto facilmente intercambiabili e relativamente inesauribili.

 

Chirurgia e medicina uscirono rafforzate dall'immane pratica che venne fatta durante la guerra, e questo fatto portò indubbiamente un progresso nella pratica sanitaria, ma non si può certo dire che la guerra abbia fatto il bene alla medicina. Semmai il contrario.

Non c’era bisogno della guerra per far fare pratica ai medici, né per perfezionare le tecnologie di intervento e diagnosi chirurgica e ospedaliera.

 

Del resto, come in ogni campo e in ogni tempo, la guerra cavalca il progresso e quindi anche la medicina si evolve, con successi ma anche disastri.

 

Soltanto un esempio: nel periodo bellico la morfina venne prodotta in grande quantità per lenire i dolori delle ferite, e grazie alle scorte accumulate nel primo dopoguerra un suo derivato, la cocaina, diventò di uso abbastanza comune, specie in certe fasce sociali.

 

Allo stesso modo, nel secondo dopoguerra, dalla ingente produzione degli antidolorifici si arrivò a sintetizzare droghe come l’eroina e altri oppiacei, che poi finiscono per arrivare al consumo comune, con comprensibili danni per l’intera società.

UN MEDICO IN GUERRA

 

Un esempio, tra i tanti, del travaglio interiore di molti medici e sanitari nel corso del primo conflitto mondiale è dato dal diario di guerra del capitano medico Gregorio Soldani da Pontedera, che offre una esauriente testimonianza non soltanto dell’operato degli ospedali da campo nelle retrovie carsiche dei primi due anni di guerra, ma anche e soprattutto della disillusione del medico davanti alla sostanziale inadeguatezza del suo intervento di fronte alla durezza e alle dimensioni della situazione contingente.

 

Non più giovane, parte volontario a 57 anni suonati non animato da sentimenti interventisti e bellicosi, ma per servire il Paese come sapeva e poteva fare, aiutando e curando le ferite degli uomini che combattevano, per un più intimo e cristiano bisogno di giustizia e condivisione.

 

Infatti, dopo un periodo passato in un ospedale militare di Firenze, sceglie di andare a svolgere il suo lavoro di chirurgo nelle retrovie avanzate del fronte, in un ospedaletto da campo di 100 posti prima a Romans e poi a Gradisca, a ridosso del fronte carsico contro Gorizia e il Monte San Michele.

 

In queste strutture incontra un’umanità sofferente, che richiede cure e attenzione.

 

Nulla di nuovo, per un medico, tranne il fatto che l’affollamento e il ricambio dei pazienti sono vorticosi, i malati sono tutti dai venti ai quarant’anni, si tratta di uomini nel pieno delle loro forze che ritornano, devastati, dal campo di battaglia e che Soldani tenta appunto di guarire e “riparare”, non certo per la guerra, ma per restituirli a una vita per quanto possibile normale.

 

Della sua esperienza di guerra lascia un diario, appunti presi giorno per giorno e probabilmente risistemati nei momenti di riposo, attraverso il quale conosciamo il suo percorso di sanitario e militare.

La scrittura autobiografica di Soldani apre un inedito capitolo della memorialistica della Grande Guerra.

 

Fino ad ora, infatti, la pratica medica e chirurgica all'interno di tali strutture di pronto intervento era stata trattata in qualche articolo delle riviste scientifiche dell’epoca, in alcuni volumi tra il descrittivo e il celebrativo e in pochi memoriali pubblicati nel primo dopoguerra.

 

Il diario di questo medico ci porta all'interno degli ospedali di guerra non dalla parte del paziente, ma da quella del tecnico che si appresta a fornire una prestazione e ne rileva gli esiti.

Assistiamo per così dire in presa diretta alle cure e agli interventi predisposti dalla pratica medica dell’epoca per ovviare a malattie e ferite spesso critiche ed estese.

Per ovviare al pericolo estremamente tangibile della cancrena gassosa derivante dalla contaminazione delle ferite con i germi del terreno, vengono praticate largamente resezioni di tessuti e amputazioni di arti.

In alcuni casi, per la verità, un più puntuale intervento del chirurgo riesce a salvare qualche arto ed evitare l’invalidità permanente, ma sono molti di più i casi, purtroppo, in cui anche l’amputazione non riesce a salvare la vita del paziente.

Nell’ospedaletto da campo, Soldani assolve il suo compito con serietà e consapevole pietà.

 

Secondo il costume della pratica medica, le quotidiane osservazioni del diario restituiscono gli esiti progressivi di una diagnostica clinica che quasi sempre non lascia molto spazio alla speranza.

Del resto, senza ambienti sterili e antibiotici utilizzati per la prima volta dagli americani nel secondo conflitto mondiale) e con strumenti radiologici imperfetti, di fronte alle diverse patologie causate dal conflitto al medico non restava altro che la sua arte, l’intuito e la mano ferma.

 

Estremamente significativo, al proposito, il resoconto statistico dell’attività dell’ospedaletto da campo numero 060 compilato da Soldani dal settembre 1916 all’agosto 1917, dal quale emerge un dato non del tutto sconfortante: i decessi sono poco più dell’8,5 per cento sul totale degli entrati (78 su 891 ricoveri).

 

Piuttosto alto (767) il numero dei pazienti movimentati, restituiti ai reparti o trasferiti in altri ospedali. Appare ovvio, infine, che i ricoveri seguissero l’andamento delle operazioni belliche, presentando punte estreme nei momenti delle grandi offensive dell’autunno 1916 e primavera-estate 1917.

 

Riguardo alle tipologie delle ferite, Soldani ammette che la pratica ospedaliera riflette le caratteristiche della guerra di trincea: «Nelle trincee sono la testa e l’arto superiore i più esposti ai colpi nemici, come nelle trincee e fuori è l’arto inferiore che corre i maggiori pericoli dallo scoppio delle granate e delle bombe a mano.

 

Trattandosi di ferite di guerra bisogna partire dal principio che esse sono tutte più o meno gravemente infette, specialmente se prodotte da schegge di granata.

D’altronde nemmeno le pallette di shrapnel e quelle di fucile possono riguardarsi come asettiche, esse trascinano con sé nella ferita frammenti di vestiario e tutto ciò che incontrano, quindi l’asepsi, cioè l’asetticità della ferita, è sempre compromessa.»

Continua poi riferendo sulle diverse teorie e sulla sua stessa pratica antisettica, che rimanda a incisioni e medicazioni opportunamente diversificate, a seconda della ferita e delle conseguenze che comporta. Nemico delle amputazioni affrettate, il chirurgo non tralascia di evidenziare i molti guasti di un intervento spesse volte troppo drastico, a cui tuttavia bisogna ricorrere quando la gravità e soprattutto il grado di infezione delle lesioni non consentono altra terapia.

Allo stesso tempo, attraverso le sue osservazioni, evidenzia non soltanto le certezze, ma anche e soprattutto i molti dubbi e i limiti di una pratica medica che esce dal crogiolo della guerra con un notevolissimo bagaglio di esperienze.

 

Infine, non dimentica mai, anche nei momenti più critici, che il suo compito è soprattutto quello di guarire e alleviare le sofferenze dei suoi pazienti, che tratta non come numeri ma come persone bisognose di cure, per cui è impossibile non provare compassione e pietà: Soldani, Dal fronte del sangue e della pietà, «Ieri sera vidi un mulo ferito da una granata ad una gamba - scrive nel suo diario Soldani, umanizzando non a caso l’arto ferito. - Camminava dolorando con gli orecchi abbassati, ogni tanto fermandosi quasi per dire che non poteva andare avanti.

Povera bestia quanto mi ha fatto male.

Non ho potuto fare a meno di stabilire un confronto fra lui e tanti poveri disgraziati, pure feriti, che hanno quasi la stessa mentalità e la stessa rassegnazione. Il confronto sembra paradossale, ma come è vero!»

 

E ancora, commentando un altro caso: «Stamani facendo con il prof. Benedetti l’autopsia di un ferito addominale non potevo staccare gli occhi da quel cadavere di un uomo grosso, alto, quasi quarantenne, padre di due figlioli.

Lo avevo veduto nel reparto soffrire senza lamenti, avvicinarsi alla morte con indifferenza.

Tenendolo in assoluto digiuno per la sua ferita, mi han detto che di nascosto beveva l’acqua della vescica di ghiaccio.

Era l’animalità che protestava contro quello che secondo lui era una prepotenza, ma protestava volendo salvare le forme e l’obbedienza ad un comando, di cui non capiva la ragione.

 

Precisamente così si è esposto al fuoco perché glielo avevano comandato, ed è morto perché per obbedienza bisogna morire.

Ma io domando a voi cari reggitori della cosa pubblica, se non vi rimorde la coscienza mandare al macello gente simile! Egli resterà qui nella terra di Romans e domani non se ne parlerà più.

Ma la sua sposa e i suoi figli crederete di pareggiarli con una misera pensione?».

La guerra entra nell’ospedaletto da campo ma è soprattutto fuori, a pochi chilometri di distanza, lungo il fronte insanguinato del Carso.

Soldani non può dimenticarlo, anche perché, da Romans come da Gradisca, gli arrivano chiari e forti i lampi e i rumori del combattimento. Il nemico è un’entità distante, che compare con più frequenza nella veste dei flussi di prigionieri che sciamano verso l’interno sotto scorta armata, ma è anche la bomba devastante e maligna che viene a “disturbare” il suo lavoro quotidiano. Il tangibile pericolo più volte corso non gli fa tuttavia dimenticare che la guerra è altrove, è vicina ma altrove, a pochi chilometri di distanza, nelle trincee, nei ricoveri e nelle baracche dei soldati che combattono sul Carso e sull’Isonzo.

Il compito di Soldani è curare quei soldati, quando ritornano dalla linea del fuoco con ferite più o meno gravi.

Un quotidiano fatto di pesanti turni Ospedaletto, pensose riflessioni serali al tavolo da lavoro, qualche uscita e una vita di relazione che tutto sommato si riduce alla frequentazione dei colleghi con cui divide spazi e ritmi del lavoro.

 

Benché si concentri molto sul lavoro e condivida a volte in maniera estremamente partecipe le vicende dei suoi pazienti, non si può certo dire che la vita militare lo attragga.

 

Lo si capisce chiaramente dalle svariate osservazioni al proposito; al diario confida infatti non poche critiche non soltanto sull'andamento generale del conflitto ma anche sulla pratica dei suoi diretti superiori, non disconoscendo il lato spietato della guerra.

Annota infatti senza timore (e non è questo un fatto del tutto scontato) le non poche fucilazioni che, anche in un territorio relativamente ristretto come Romans e dintorni, vengono eseguite in seguito a diserzioni e sollevazioni di reparti che non volevano tornare al fronte.

 

Allo stesso tempo, riconosce ad alcuni generali con cui viene in contatto una «eleganza» di modi che non può fare a meno di apprezzare. Il quadro sanitario descritto con toni veritieri e impressionistici dal dottor Soldani potrebbe essere esteso ai medici e infermieri di tutti gli eserciti belligeranti, costretti ad affrontare situazioni pressoché simili sui vari fronti del conflitto.

 

Certo però che un’analisi comparata, ancora in gran parte da fare, permetterebbe di far emergere anche differenziazioni e particolarità. Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, due tra i principali storici contemporanei che si sono occupati del conflitto mondiale, nel loro libro La Grande Guerra 1914-1918 si sono posti il problema dell’efficacia dell’intervento sanitario italiano nel corso del primo conflitto mondiale, partendo da un dato per certi versi impressionante: l’altissimo numero dei militari italiani ricoverati per malattia.

 

Le statistiche sanitarie registrano oltre un milione di ricoveri di soldati nel corso del 1917 (1.057.300 per l’esattezza); l’anno successivo il numero aumenta a oltre un milione e 310.000, su circa cinque milioni di soldati mobilitati.

Ancor più inquietante il dato complessivo dei morti per malattia: circa centomila su un totale di circa 500.000 decessi di militari entro il 1918 (senza ovviamente contare i militari morti in prigionia), «ossia il 20 per cento - cito da La Grande Guerra 1914-1918 - più del doppio in percentuale rispetto all'esercito francese» che, su un milione e 350.000 decessi di militari, ne denunciava circa 135.000 morti per malattia.

Pur in mancanza di un quadro di studi analitici sul tema, a livello di ipotesi Isnenghi e Rochat giungono alla conclusione che il rilevante divario di decessi per malattia tra l’esercito italiano e quello francese, condotti a combattere una pressoché analoga guerra offensiva sui rispettivi fronti in cui vennero impiegati, era dovuto all'eccessivo sfruttamento delle truppe (lunghe permanenze in trincea, abbigliamento non sempre sufficiente, poca attenzione all'alimentazione e al riposo delle truppe, arruolamento indiscriminato anche nei casi dubbi) voluto da Cadorna negli anni delle esasperate offensive carsiche.

 

Va detto però che il quadro complessivo andava peggiorato dalle certo non ottimali condizioni sanitarie del paese, verificate già negli anni prebellici dagli indicatori della mortalità e morbilità infantile e generale.

Non conforta, infine, il fatto che anche l’esercito austro-ungarico, che per certi versi presentava, a livello di truppe mobilitate, caratteristiche analoghe a quello italiano (massiccia presenza di contadini, scarsa considerazione per il benessere delle truppe e loro spregiudicato uso da parte dei comandi), scontasse una situazione pressoché analoga.

 

Fino al 1917 infatti, su tutti i fronti in cui venne impegnato, l’esercito austroungarico subì 720.000 morti, ben 260.000 dei quali negli ospedali delle retrovie e dell’interno, per malattie e postumi di ferite.

Alla fine, i morti furono un milione e 200.000, 500.000 gli invalidi e ben due milioni e 300.000 gli ammalati.

 

 

LE FERITE DELLA TRINCEA

 

In Italia dal 1915 al 1918 oltre cinque milioni di uomini di età variabile tra 18 e 45 anni vestirono il grigioverde e oltre tre quarti di essi combatterono in trincea.

Circa cinquecentomila militari morirono sul campo di battaglia e negli ospedali delle retrovie, altri centomila perirono per fame, stenti e malattie nei campi di prigionia dell’Austria-Ungheria e della Germania.

 

Nel dopoguerra furono 220 mila i “grandi invalidi” con una accertata rilevante menomazione fisica o psichica che dava diritto alla pensione statale, ma moltissimi combattenti e civili continuarono a soffrire per anni i postumi di malattie, infezioni o ferite contratte in guerra.

Dal canto suo l’Austria-Ungheria, impegnata dal 1914 su più fronti, registrò oltre un milione di morti tra i militari del suo esercito, mentre gli ammalati e gli invalidi censiti alla fine del conflitto sono circa tre milioni.

 L’esperienza della trincea segnò in maniera indelebile più generazioni in armi.

 

Dentro la trincea, scavata nel terreno per circa un metro e mezzo di profondità e larga poco meno, rafforzata da un parapetto di pietre e sacchi di terra alto mezzo metro, con feritoie e osservatori camuffati con frasche e terra, i soldati vivevano in ricoveri seminterrati di poco più di un metro quadrato.

 

 Il panorama che si vedeva dalla trincea era desolante: scompariva la natura e, al suo posto, ovunque sul terreno pietre e terra bruciata, siepi di filo spinato arrugginito, corpi in decomposizione che non era possibile raccogliere a causa del fuoco avversario.

 

E poi armi, oggetti e rottami ferrosi, rifiuti ed escrementi buttati fuori dalle trincee da uomini tormentati da parassiti, infezioni, affollamento, fango e sporcizia.

Mancava l’acqua anche per bere e non era possibile lavarsi.

 

A causa della vicinanza del nemico, a sua volta trincerato a poche decine di metri di distanza e pronto a sparare su ogni movimento sospetto, in trincea si riposava di giorno e si lavorava di notte.

 

Il cibo, cucinato nelle retrovie, arrivava di notte in capaci casse di cottura.

Dopo ore di marcia, la pasta e il riso parevano colla, il brodo gelatina, il pane e la carne diventavano duri come sasso.

Altre volte il cibo era secco: gallette, scatolame, cioccolato e un decilitro di liquore solo prima degli assalti.

L’acqua era razionata e a ogni soldato ne toccava in media mezzo litro al giorno.

Come non bastasse, bisognava combattere, che voleva dire subire i bombardamenti e andare all’assalto della trincea nemica, dalla quale partiva un fuoco micidiale.

 

Gli assalti avvenivano prevalentemente di giorno, anticipati da bombardamenti più o meno intensi che avevano lo scopo di distruggere le trincee nemiche e fiaccare lo spirito di resistenza degli avversari.

I soldati uscivano dalle trincee in ranghi compatti, sospinti da ufficiali e gendarmi che avevano l’ordine di sparare su chi si rifiutava di andare avanti.

 

Dalla trincea avversaria il nemico sparava con fucili, mitragliatrici capaci di sparare anche 400 colpi al minuto, cannoni campali caricati a shrapnel, proiettili che esplodevano ad alcuni metri dal suolo o a terra sprigionando una micidiale rosa di palle di piombo o spezzoni di ferro, perfino con i gas.

 

Se si riusciva a superare le matasse di filo spinato che rallentavano i soldati e li trasformavano in bersagli da tiro a segno, e penetrare nella trincea avversaria, il combattimento si tramutava in brevi, cruentissimi scontri con le bombe a mano e «all’arma bianca»: con baionette e coltelli, il calcio dei fucili, le mazze ferrate o micidiali utensili come picconi e vanghette.

 

Tutti questi nefasti atti provocavano, come è comprensibile, un grande numero di decessi e un ancor più rilevante numero di feriti. Nonostante i progressi compiuti dalla medicina e dalla chirurgia all’inizio del secolo, le ferite da arma da fuoco o da schegge risultavano micidiali per gli effetti dirompenti sulle parti del Trincea austro-ungarica avanzata sul Carso, 1916. — 18 — corpo che raggiungevano, testa, torace, arti superiori e inferiori.

 

Soprattutto nel primo anno di guerra, quando ancora l’esercito italiano andava all'assalto senza elmetto, introdotto in numero consistente soltanto nel 1916.

 

Malattie e infezioni erano moltiplicate dalle inenarrabili condizioni igieniche e dalla scarsa efficacia di un intervento sanitario spesso non tempestivo.

 

Fino all'avvento degli antibiotici, utilizzati per la prima volta dall'esercito americano nel secondo conflitto mondiale, le ferite addominali, al torace e al capo provocarono una mortalità altissima per infezione.

 

Allo scopo di scongiurare la cancrena gassosa, causata dalla contaminazione delle ferite con germi viventi nel terreno, i chirurghi praticavano radicali amputazioni, ma ugualmente il risultato di ogni battaglia era un altissimo numero di decessi tra i feriti.

 

In tale contesto, va rilevata l’estrema difficoltà dell’intervento del medico, costretto a lavorare quasi sempre in emergenza, con un numero si pazienti superiore a quello preventivato, in strutture che, per pulizia e igiene, non erano certamente comparabili con gli attuali ospedali. In questo scenario, appare ovvio che non sempre le ferite per arma da fuoco o per schegge potevano essere curate convenientemente, soprattutto per la mancanza di condizioni igieniche accettabili.

 

 

Nonostante tutti gli sforzi, quasi sempre i feriti arrivavano all'ospedale da campo dopo una permanenza più o meno lunga sul campo di battaglia, a contatto con i germi del terreno, spesso causa di infezioni che in breve tempo potevano portare alla diffusione nei tessuti della “cancrena gassosa”, terribile complicanza che, in mancanza di antibiotici, portava spesso alla morte.

 

Contro la cancrena i medici operavano con resezioni di tessuti e amputazioni spesso radicali di gambe e braccia, che purtroppo non sempre risolvevano il problema.

L’INTERVENTO SANITARIO

 

Contro i “guasti” della guerra di trincea, appariva importante agire con una certa urgenza, proprio per scongiurare infezioni e contaminazioni.

Per questo motivo, la dislocazione delle strutture sanitarie aveva una grande importanza nel meccanismo della guerra di trincea, perché è evidente che quanto prima medici e sanitari intervenivano sui feriti, tanto maggiore era la probabilità che questi ultimi potessero essere guariti dalle ferite contratte sul campo di battaglia.

A ridosso delle trincee, in luoghi relativamente sicuri, operavano i punti sanitari avanzati. In caverne o baracche, i sanitari prestavano le prime cure ai feriti provenienti dal campo di battaglia con le proprie gambe o trasportati dai porta-feriti.

 

Qui avveniva una prima cernita dei feriti: si medicavano e rispedivano al fronte i feriti più lievi, e si indirizzavano quelli bisognosi di cure chirurgiche agli ospedali delle retrovie.

Morfina e altri antidolorifici, quando c’erano, venivano riservati ai feriti recuperabili, mentre nulla si poteva fare i tanti per moribondi e i feriti gravissimi, intrasportabili, che venivano lasciati morire spesso senza poter offrire loro nessuna cura.

Dai punti sanitari avanzati i feriti venivano trasferiti con camion o carri trainati da cavalli o buoi agli ospedaletti da campo, dotati da 50 a 100 posti letto, dislocati nei paesi o nei campi delle retrovie, distanti da due a cinque chilometri circa dalla linea del fuoco.

 

In questi ospedaletti veniva prestato il primo intervento sanitario medico e chirurgico, operando una ulteriore scrematura tra i feriti leggeri e quelli gravi, che venivano indirizzati a più capaci ospedali militari d’armata, ospitati di solito in ville, chiede o edifici pubblici dei paesi delle retrovie.

 

Questi ospedali ospitavano fino a 200 malati, ma in casi di necessità, come ad esempio nei giorni successivi all'attacco austro-ungarico con i gas sul San Michele del 29 giugno 1916, quando i morti furono circa seimila e molti di più i feriti e intossicati, potevano anche triplicare la loro capienza.

 

Nel corso del conflitto, il numero dei feriti crebbe in misura proporzionale alla progressiva intensificazione dei combattimenti.

Prudenti statistiche ufficiali dell’esercito italiano indicano poco meno di 500.000 feriti curati nel 1915, oltre 800.000 nel 1916, fino a superare il milione di ricoveri nel 1917, per poi toccare il milione e 310.000 ricoveri nel 1918, su circa cinque milioni di soldati mobilitati.

 

Ancora più inquietante il dato complessivo dei morti per malattie varie, tra cui tubercolosi, infezioni bronchiali, tifo e malaria, influenza “spagnola”, colera: ben 100.000 sulla cifra complessiva di circa 500.000 decessi di soldati, senza ovviamente contare i 100.000 morti fra i 600.000 prigionieri italiani dell’Austria Ungheria e della Germania.

 

Di fronte alla portata di queste cifre, risalta l’inadeguatezza del pur ingente progetto di intervento sanitario approntato dall’esercito italiano, entrato in guerra con poco più di 5.200 medici in servizio permanente, richiamati e nella milizia territoriale, con a disposizione nel giugno 1915 circa 24.000 posti letto nei vari ospedali da campo delle retrovie del fronte, più altri centomila posti letto nel resto del paese, mobilitando ospedali civili, requisendo scuole e palazzi pubblici, apprestando navi e treni ospedali ancorati nei porti o parcheggiati nei principali snodi ferroviari.

 

Alla fine del 1916 i posti letto nelle retrovie del fronte salirono a centomila, grazie anche all'apporto della Croce Rossa italiana e alleata, nonché al concorso delle strutture dell’Ordine di Malta.

 

Furono ottomila gli ufficiali medici in attività al fronte, e seimila negli ospedali dell’interno del paese.

 

Il loro numero, chiaramente insufficiente, venne aumentato con la chiamata alle armi dei medici civili e della gran parte degli studenti di medicina, “laureati” al fronte grazie ai corsi accelerati delle cosiddette Università castrensi, la più grande allestita a ridosso del fronte, nel paese friulano di San Giorgio di Nogaro nel 1916, per impulso dell’Università di Padova che riuscì a laureare un “battaglione” di 1.300 giovani militari di tutte le armi, studenti agli ultimi anni della facoltà di medicina.

 

L’Università castrense di San Giorgio di Nogaro funzionò per quasi tutto il 1917, e prima della ritirata di Caporetto fece a tempo a laureare altri 500 giovani medici.

 

Grazie a questi sforzi, nel corso del 1917, il periodo del maggiore sforzo dell’esercito italiano sul fronte del Carso e dell’Isonzo, l’esercito italiano poté disporre di un numero maggiore di medici, con a disposizione e circa 200.000 posti letto nelle immediate retrovie del fronte.

 

A ridosso del fronte funzionavano 122 reparti di pronto intervento - sezioni di sanità, reparti alpini con i muli, ambulanze chirurgiche e radiologiche - con a disposizione 850 ambulanze e 720 carri per il trasporto feriti.

Gli ospedali da 50 letti erano 234, 167 quelli da 100 letti, 46 da 200 letti, più 27 grandi ospedali di tappa, 38 sezioni di disinfestazione, 59 treni ospedale attrezzati ciascuno con 360 posti.

 

Inoltre, in vari ospedali dell’Italia settentrionale erano a disposizione non meno di altri 365.000 letti per i militari feriti o ammalati.

 

Nel corso del conflitto venne infine potenziato un servizio psichiatrico militare funzionante in maniera autonoma dal settembre 1915, il servizio neuropsichiatrico di guerra mise in campo diversi consulenti psichiatrici distribuiti nelle quattro armate combattenti con il compito di valutare le diverse manifestazioni di isteria e shell-shock conseguente alle esplosioni e agli stress del campo di battaglia.

 

L’intervento psichiatrico militare si articolava su tre livelli, come il corrispondente servizio sanitario.

Il primo livello di intervento era collegato direttamente alla prima linea e formato dai posti di medicazione reggimentali e dagli ospedaletti da campo; qui venivano praticati i primi interventi sanitari a cui seguiva lo smistamento in funzione del tipo e gravità della ferita o patologia riscontrata.

 

Il secondo livello era costituito dagli ospedali di tappa, che avevano funzioni di collegamento tra la prima linea e le retrovie e rappresentavano un semplice punto di transito più o meno breve per ammalati e feriti.

 

Il terzo livello, infine, si articolava sugli ospedali militari di riserva.

 

Nel corso della guerra vennero istituiti dei reparti di prima linea, con il compito di gestire gli alienati, curare i casi meno gravi, individuare i simulatori e successivamente instradare i malati di mente riconosciuti nei manicomi militari e civili dell’interno.

 

In Gran Bretagna sono stati stimati in circa 80.000 i militari passati nei centri psichiatrici, in Germania 313.399, negli Stati Uniti 97.556, per quanto riguarda l’Italia stime approssimative del dopoguerra individuano circa 40.000 militari considerati ufficialmente alienati.

 

Il loro numero, piuttosto basso in rapporto alla forza impiegata in linea, rileva chiaramente che nell'esercizio del servizio neurologico militare prevalse un approccio prevalentemente disciplinare, nel soldato sofferente si vedeva più un colpevole da punire che un ammalato da curare.

 

Le terapie, in linea con i principi di cura psichiatrica all'epoca prevalentemente in voga, si basavano in larga parte sulla intimidazione. Ripetute sedute faradiche a cui seguivano ordini urlati, eterizzazioni, suggestioni collettive costituivano il quotidiano di decine di migliaia di disgraziati ricoverati di quei manicomi, “scemi di guerra” a cui spesso era precluso il ritorno alla società civile.

 

 

 A queste terapie si contrapponevano le più recenti teorie freudiane, non applicate all'epoca in Italia ma largamente utilizzate in Germania e Gran Bretagna, che vedevano nella fuga nella malattia la mancata soluzione del conflitto generato dalla contrapposizione tra il desiderio di sopravvivenza e l’imperativo morale che portava il soldato a combattere e morire per la patria.

L’UNIVERSITÀ CASTRENSE       DI SAN GIORGIO DI NOGARO

 

Castrense, da castrum, vuol dire accampamento militare.

 

La costituzione di questa Università militare nasceva dall'esigenza di formare in pochi mesi ufficiali medici, necessari alle esigenze del conflitto, senza attendere la conclusione dei regolari corsi sessennali oltre, s’intende, al tempo necessario a portare a termine eventuali corsi di specializzazione.

 

Dal punto di vista politico questo fu un atto molto forte compiuto dal Comando Supremo in evidente contrapposizione con il Ministro della Pubblica Istruzione.

 

Questa situazione, che politicamente e culturalmente creò un profondo dissidio anche nell'ambito del Governo, venne, in qualche modo risolta.

 

Tutto ciò fu voluto dall'allora Ispettrice della Croce Rossa Italiana che svolse una peculiare attività di controllo negli ospedali e che riuscì a creare questa scuola a San Giorgio di Nogaro e completandone l’organico con l’immissione di un gruppo di docenti universitari militari.

 

Questa scuola, però, non poteva funzionare così come era stata creata e questo proprio per forte dissidio che si era creato tra lo Stato Maggiore e il Ministero della Guerra da una parte e il Ministero della Pubblica Istruzione dall'altra.

 

L’accordo venne, infine, trovato e con un decreto luogotenenziale del 1916 si mantenne in vita l’Università Castrense riconoscendo all'esercito la necessità di formare i medici militari da inserire nei ranghi dell’esercito ma rivendicava all'Università il diritto di conferire le lauree.

 

In virtù di questo decreto gli studenti in medicina che fossero militari di truppa o aspiranti ufficiali medici potevano essere laureati in soli quattro anni accademici dalla sola Università di Padova. Venne così formato un battaglione universitario di 1.300 studenti che si laureavano a Padova provenendo dai diversi corpi dell’Esercito, della Marina ma anche da diversi atenei italiani.

 

Gli studenti padovani che non erano soggetti a chiamata alle armi e che quindi non facevano parte di questo battaglione che dipendeva direttamente dal Comando Supremo, vennero trasferiti, d’ufficio, all’Università di Bologna (...) Nel 1917 l’esigenza di mantenere in vita l’Università Castrense fu ritenuta superata e così gli studenti poterono tornare ai consueti corsi universitari regolari. (...)

 

I corsi terminarono nel 1917, si tennero regolarmente gli esami e 500 studenti furono laureati. Molti di questi persero la vita a Caporetto o durante la conseguente ritirata.

 

Il professor Lucatel Il professor Lucatello* volle che i nominativi di questi ufficiali medici caduti venissero incisi sul portale dell’Università patavina, portale ottenuto dalla fusione dei cannoni austriaci che il nostro Esercito aveva preteso dalla resa dei resti dell’esercito austro-ungarico.

 

Tratto da “Malattie e medicina durante la Grande Guerra 1915-1919”, Bettiol, Brunetta, Ceschin, De Bertolis, Fabi, Fassina, Toffolon, Gaspari ed., 2009.

 

* Preside della facoltà di Medicina durante la prima guerra mondiale e, alla fine del conflitto, dal 1919 al 1926, Rettore dell’Università di Padova.

 

 

RIFLESSIONE SULL’UNIVERSITÀ CASTRENSE DI GIUSEPPE TUSINI TENENTE COLONNELLO MEDICO DIRETTORE DELL’UNIVERSITÀ

 

 

«Il primo provvedimento fu quello di nominare Aspiranti Ufficiali medici gli studenti che avessero compiuto il IV anno di Medicina per coadiuvare gli ufficiali medici ed eventualmente sostituirli nei battaglioni.

 

Successivamente il Comando Supremo propose al Governo di inviare alle rispettive Università, per compiervi un corso accelerato, tutti gli studenti del V e VI anno di Medicina che si trovavano sotto le armi, domandando che fosse anticipata la laurea a quelli del V anno. Il progetto, sottoposto all'approvazione del Consiglio Superiore della P.I. fu accolto soltanto per gli studenti del VI anno e conseguentemente fu emanato il Decreto Luogotenenziale n° 1768 del 28 novembre 1915, che autorizzava i soli studenti del VI anno a seguire un corso accelerato di 4 mesi nelle proprie Università.

 

Ma era necessario, protraendosi la guerra, provvedere anche per gli studenti degli anni successivi.

 

Fu così che si intravide la possibilità di riunire in un centro ospedaliero dietro la linea delle operazioni, senza quindi allontanarli dalla zona di guerra come voleva il Comando Supremo, gli studenti in arretrato con gli esami e quelli del quinto obbligatoriamente per completare gli studi ed eventualmente presentarsi agli esami con un adeguato corredo di cognizioni.

 

Si arrivò così dopo varie discussioni e qualche compromesso al D.L. n° 38 del 9 gennaio 1916 con il quale si istituivano in San Giorgio di Nogaro i “Corsi di Medicina e Chirurgia di per gli studenti del V e VI anno di Medicina che si trovavano sotto le armi”.

 

Il Decreto uscì nel testo definitivo con una variante di grande valore per i laureandi.

 

Infatti i Corsi erano mantenuti obbligatori e gli esami speciali, come quelli della Laure, dovevano tenersi non più nelle varie Università del Reggino com’era previsto nella prima stesura, ma avrebbero dovuto tenersi in una sola Università che meglio avesse potuto corrispondere alle esigenze militari del momento, per darvi gli esami con i loro insegnanti e con gli altri professori da aggiungersi a quelli dell’Università prescelta.»

Riportiamo di seguito due programmi delle lezioni tenute presso l’Università Castrense nel corso del 1916:

 

TRAUMATOLOGIA DI GUERRA

PROF. LORENZO BONOMO

 

LEZIONE 1^

- 25 febbraio 1916 - Nozioni di balistica in rapporto allo studio di traumatismi generati dalle armi da guerra. Proiettili delle nuove armi portatili in uso negli eserciti: loro qualità fisiche e dinamiche. Composti esplosivi antichi e moderni e loro influenza sulla gittata e sul potere di penetrazione dei proiettili.

 

LEZIONE 2^

 - 3 marzo 1916 - Lesioni dei proiettili delle armi da guerra studiate sui bersagli inanimati, sulle sostanze umide, sui corpi duri e sui corpi elastici. L’azione esplosiva dei proiettili delle armi di piccolo e di medio calibro sul corpo umano. Teorie sulla zona esplosiva. Dimostrazioni fotografiche e radiografiche.

 

 LEZIONE 3^

 - 10 marzo 1916 - Studio sull’azione dei proiettili sul cranio in rapporto alle loro qualità fisiche e dinamiche ed alle resistenze della volta e della base del cranio. Caratteri e varietà delle perforazioni e delle fratture del cranio. Dimostrazioni fotografiche. Caso clinico: Ferita cranio-cerebrale della zona rolandica con sintomatologia sensivo-motoria corticale.

 

LEZIONE 4^

 - 17 marzo 1916 - Studio dei colpi da fuoco cranio-facciali e cranio-cerebrali. La topografia cranio-cerebrale nello studio delle localizzazioni delle ferite encefaliche per arma da fuoco. Due casi clinici: 1.) - Ferita col colpo da fuoco a tragitto mastoido-zigomatico, paralisi periferica del facciale con distrofia della glandola sottomascellare; 2) - Ferita con colpo tangente della volta cranica nella zona rolandica: sintomatologia corticale sensitivo-motoria. Dimostrazione radiografica.

 

LEZIONE 5^

- 24 marzo 1916 - Ferite. d’arma da fuoco cranio-cerebrali della regione parieto-occipitale. varietà anatomiche delle lesioni della volta cranica nei colpi tangenti e nei colpi perforanti. Ferite dei seni della dura meninge. Sintomatologia delle ferite cerebrali dei lobi parietali ed occipitali. Caso clinico: Emianopsia tipica per ferita del lobo occipitale destro.

 

LEZIONE 6^

 - 31 marzo 1916 - Ferite d’arma da fuoco della colonna vertebrale. Azione dei proiettili di piccolo calibro delle armi portatili e di quelli d’artiglieria sullo scheletro rachidiano e sul midollo spinale. Sintomatologia delle ferite del segmento lombo-sacrale della rachide. Caso clinico. Ferita con penetrazione ed arresto del proiettile nello speco vertebrale. Laminectomia laterale.

 

LEZIONE 7^

 - 7 aprile 1916 - Ferite d’arma da fuoco del segmento cervicale e dorsale superiore della colonna vertebrale, penetranti e non penetranti. Sintomatologia delle ferite radicolari del plesso brachiale e del corrispondente segmento del midollo spinale. Caso clinico: Ferita da proiettile di fucile tangente nel segmento dorsale superiore della rachide con paraplegia e parestesia.

 

LEZIONE 8^

- 14 aprile 1916 - Ferita di arma da fuoco del cranio. Caso clinico: Ferita cranio-cerebrale di proiettile da fucile con arresto sulla rocca petrosa. Oftalmoplegia totale omologa. Sordità. Sindrome labirintica. Operazione: Craniotomia a lembo osteoplastico. Estrazione del proiettile incluso in un piccolo ascesso nel lobo temporale.

 

LEZIONE 9^

 - 5 maggio 1916 - Lesione delle ossa lunghe, diafisi ed epifisi, per proiettili delle armi portatili da guerra. Studi sperimentali ed osservazioni pratiche comparative fra gli effetti del proiettile di piccolo calibro italiano e quello Manlicher austriaco. Lesioni da proiettili esplosivi. Dimostrazione.

 

LEZIONE 10^

 - 12 maggio 1916 - Ferita da arma da fuoco del segmento lombo-sacrale della rachide. Caratteri e varietà delle lesioni dello scheletro rachidiano. Sintomatologia delle ferite della coda equina. Caso clinico: Ferita da proiettile da fucile penetrante nello speco sacrale e sintomi radicolari.

 

LEZIONE 11^

 - 19 maggio 1916 - Tecnica della laminectomia nelle lesioni traumatiche della rachide. Laminectomia definitiva ed osteoplastica. Descrizione dell’anatomia chirurgica e dei metodi operativi. Emilaminectomia (metodo Bonomo). Suoi vantaggi sulla stabilità della rachide e protezione del midollo. Dimostrazione sul cadavere della emilaminectomia.

 

 

PROTESI E CHIRURGIA DEGLI ARTI

PROF. BARTOLO NIGRISOLI

 

LEZIONE 1^

- 23 febbraio 1916 - Ferita da bomba a mano alla natica. Aneurisma della femorale, da proiettile di fucile. Ampia ferita della coscia da granata. Ferita lacera della spalla da granata.

 

LEZIONE 2^

 - 1 marzo 1916 - Frattura del femore da scheggia di granata (Pseudo-artrosi. Suppurazione. Emorragia secondaria). Frattura della tibia da bomba a mano.

 

LEZIONE 3^

- 6 marzo 1916 - Lacerazione della mano e frattura comminuta dell’avambraccio da bomba a mano. Contusione grave della spalla. Frattura del radio da scheggia di granata. Frattura dell’omero da palla di fucile.

 

LEZIONE 4^

- 15 marzo 1916 - Ferita lacera suppurante della mano ed ascesso della coscia consecutivo ad iniezione antitetanica. Confronto con un altro caso pure di ascesso della coscia da iniezione antitetanica praticata contemporaneamente dallo stesso medico per una contusione del braccio senza visibile lesione esterna: il 2° ascesso è più superficiale e meno esteso. Linfangioite del braccio da patereccio.

 

LEZIONE 5^

 - 22 marzo 1916 - Ernia muscolare. Varici. Frattura malleolare.

 

LEZIONE 6^

 - 5 aprile 1916 - Contusione profonda della gamba. Ferita antica suppurante da scheggia di granata con permanenza del proiettile nella gamba. Esito di frattura comminuta della gamba.

 

LEZIONE 7^

 - 3 maggio 1916 - Frattura del 3° metacarpo mal consolidata. Frattura della rotula, anchilosi del ginocchio (genu recurvatum).

 

LEZIONE 8^

- 11 maggio 1916 - Frattura tipica dell’estremo inferiore del radio male consolidata. Ferite varie degli arti (da bomba a mano).

 

LEZIONE 9^

 

- 18 maggio 1916 - Ancora della frattura dell’estremo inferiore del radio. Ferita trapassante della coscia da scheggia (infezione grave). Altra ferita della coscia con lesione del ginocchio. Ferita da shrapnell alla regione poplitea. Ferita della mano, Esercizi clinici tutti i giorni con speciale riguardo alla dimostrazione dei vari metodi di apprestamento ed applicazione di apparecchi per le più svariate lesioni dello scheletro nelle diverse contingenze di soccorso in guerra e in tempo di pace.


 

 

TESTIMONIANZE DI UN MEDICO AL FRONTE

 

Riportiamo di seguito alcuni significativi passi tratti dalle pagine del Diario del capitano medico Gregorio Soldani nella Grande Guerra. (...)

 

Non so se queste pagine vedranno la luce, ad ogni modo rileggendole nella quiete della mia campagna, rivivrò quei giorni lieti e tristi, solenni sempre.

 

Rivedrò tanti umili eroi che sui letti di dolore, non ebbero un lamento contro la loro sorte, e morirono rassegnati alle Leggi di una necessità che forse essi non capivano, ma rispettavano come qualcosa di superiore.

Quante ignorate energie e quanti nobili cuori sono coperti di terra nei modesti cimiteri di tutti i paeselli vicini alle linee di combattimento o lassù nelle trincee del San Michele! lo non potevo andare ai cimiteri di Romans e di Gradisca senza ritornare commosso: molti nomi scritti su quelle croci mi erano noti come quelli di persone che non ero riuscito a strappare alla morte.

Ero contento quando i camions della Sanità o della Croce Rossa venivano a prendere i convalescenti per portarli indietro, erano vite che a me pareva di restituire alla patria, alla società, alle famiglie, e i loro ringraziamenti così umili, semplici, talvolta ridicoli, costituivano per me la più ambita delle ricompense; erano degli amici che vedevo allontanare con i più fervidi auguri. Rileggendo queste note, li rivedrò tutti ricordandoli e nella speranza che qualcuno di loro si ricordi di me.

 

18 novembre (1915)

- Ci conducono a vedere gli spedaletti da campo di Medea (060 e 091). Le autorità militari hanno fatto quello che hanno potuto, ma che differenza con gli ospedali di riserva.

Là spesso il lusso. Qui deficienza di tutto.. locali impossibili; brande, invece di letti, e capisco che essendo unità mobili, non potevano avere nulla di stabile.

Tutte le stanze sono piene di feriti, e gravi, e mi si stringe il cuore a vedere questa fiorente gioventù dilaniata dalle granate, e molta perirà per una causa santa e giusta, ma di cui la maggior parte non ha neppure un’idea lontana.

Pensateci voi che siete restati a casa nei vostri salotti. Il giorno della pace molti saranno glorificati, e questi saranno dimenticati!

 

22 Novembre (1915)

- II capitano Benedetti di Catania, direttore dello Spedale, mi consegna il reparto, e gentilmente mi lascia carta bianca. I feriti sono di una gravezza eccezionale: abbiamo delle lesioni gravi al cervello, al torace, all’addome; le fratture degli arti non si contano.

Si fa del nostro meglio per raggiungere l’asepsi, ma tutto è in miniatura: due tavolini accostati costituiscono i letti di medicatura; la garza e le compresse si dicono sterilizzate ma lo saranno?

II fatto è che le suppurazioni sono enormi ed esiste la gangrena gassosa che uccide in poche ore.

 

7 Dicembre (1915)

- è morto il soldato a cui una granata aveva levato tutti e due gli occhi, asportata la radice del naso, e fracassato in tre punti la teca del cranio.

Deve rimpiangersi per questa fine? Credo di no.

Si é sviluppato un altro caso di gangrena gassosa! Mio Dio come farò a liberarmi da questo nemico?

Oggi, essendo ammalato Benedetti, ho fatto la statistica del nostro spedaletto per il mese di Novembre: su 548 entrati, dei quali 181 per congelamento ai piedi, si sono avuti 47 morti!

Le ferite alla testa ed all›addome sono quelle che dettero il mag giore numero: quelle degli arti andrebbero bene se non vi fossero quelle maledette gangrene; abbiamo perduto così 4 feriti: non é poco!

Stasera grande attività sul Carso; cosa sarà mai successo?

- Siamo così vicini, e non sapremo nulla fino a che non leggeremo i giornali, che qui arrivano sempre con 24 ore di ritardo... quando arrivano!

 

12 Dicembre (1915)

- leri sera avevo appena scritto queste note che frequenti colpi di fucile risuonarono nelle vicinanze di Romans: il tenente Campisi che passava per il cortile, sentì fischiarsi attorno dei proiettile.

Non era passato un’ora che arrivarono tre feriti gravi. (...)

Un’altra dolorosa novità: al secondo reparto hanno portato un caso, pare, di colera: colla sporcizia che ci circonda e col personale subalterno che abbiamo, non ho che augurarmi: “Dio me la mandi buona e senza vento!”.

Verso Gorizia e verso Doberdò un vero inferno da stanotte: Soldani prepara i ferri, domani sconterai la calma dei giorni decorsi!

 

18 Gennaio (1916)

- Quanto ho lavorato! Oltre il servizio ordinario ai feriti, abbiamo fatto una laparatomia per accesso epiploico in seguito a ferita penetrante nello stomaco, ed una amputazione di coscia al terzo superiore a quel soldato di Padova al quale l’altra sera avevo legato la poplitea.

Che ferita e che sfacelo aveva prodotto quella granata! Calma intorno a Romans: solamente ogni tanto abbiamo dei colpi e delle scosse violente; pare che nelle vicinanze abbiano messo due pezzi da 305.

 

19 Gennaio (1916)

- É morto il laparatomizzato di ieri: stasera voglio vedere se mi é possibile fargli l’autopsia; sta invece molto meglio l’amputato di coscia.

Stamani ho tolto due proiettili; uno era nel torace, e l’altro nella iliaca esterna, giù nell’osso.

II primo si doveva ad una bomba a ed il soldato lo ha reclamato con viva premura.

L’altro un proiettile Mauser lo posseggo io.

Volevo darlo al soldato, un napoletano; non solo non lo ha voluto, ma neppure lo ha voluto vedere!

Egli deve essere un entusiasta della guerra!

Mi hanno portato un ferito per scoppio di bomba a mano; tutta la faccia é una piaga; ha le labbra e le orecchie lacerate; un occhio svuotato, e l’altro ferito! Stasera verso le 16, e fino alle 17.1/2 un vero inferno si é scatenato verso Sagrado: non so quanti mai colpi di cannone saranno stati sparati.

Tutto il paese tremava, e qualche granata nemica é scoppiata nelle vicinanze di Romans.

Un tenente del 63° mi ha raccontato che fra Sdraussina e Sagrado in questi giorni é stato un vero diluvio di ogni genere di proiettili; ad un soldato di fanteria ieri una granata portò via la testa di netto.

Entro il paese di Sagrado alla sera è impossibile ogni circolazione tante sono le pallottole che vi cadono dalla soprastante collina.


GIUSEPPE UNGARETTI NELLA BUFERA DELLA GUERRA SUL CARSO

 

 

Alla Grande Guerra parteciparono molti intellettuali: i pittori Mario Sironi, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Gino Severini, Carlo Carrá, Fortunato Depero; i giornalisti: oltre Filippo Corridoni; Benito Mussolini, futuro Capo del Governo; Giovanni Papini; Carlo Emilio Gadda; l’architetto Antonio Sant’Elia, (...) gli scrittori Gaetano Salvemini, Filippo Tommaso Marinetti e Giovanni Gentile (...); i poeti Eugenio Montale, Gabriele d’Annunzio, Umberto Saba, e soprattutto Giuseppe Ungaretti che, essendo alle dipendenze della 22^ Divisione, operava proprio sul fronte a nord di Castelnuovo.

 

Dipendente dell’ottava compagnia del III Btg. del 19° Rgt. della Brigata Brescia, Giuseppe Ungaretti, raggiunse il proprio reggimento con altri complementi il 2 dicembre 1915, praticamente alla fine della quarta battaglia dell’Isonzo. (...)

 

Ungaretti scrive i suoi primi pensieri relativi alla guerra: “Insieme a Papini scrivemmo allora, mentre i giornalisti italiani scrivevano di gran tronfie parole trionfali, un articolo in cui era detta la minacciosa verità; la censura la abolì da capo a fondo”.

 

Proprio sotto Cima 4 del monte San Michele, il 23 dicembre 1915 Ungaretti aveva vissuto e scritto una delle più belle poesie di guerra, Veglia, condividendo con i compagni la stessa sorte della guerra.

 

L’ultimo giorno dell’anno 1915, Giuseppe Ungaretti lo trascorse attuando un turno di sentinella, “affogato nel fango”, come scriveva all’amico Papini, sul crinale di un monte: probabilmente era q. 170 il poggio sopra Sdraussina, sotto il monte San Michele, in un luogo da dove Ungaretti guardava il Carso, percorso in tutti i sensi dalle trincee perdute dagli Austriaci nel corso delle offensive estive e che ora offrivano riparo ai soldati italiani, dove, sotto le cime del monte San Michele, nelle trincee avanzate, nascondigli costruiti alla meglio, le sentinelle facevano buona guardia per tutta la giornata stando fermi, immobili, provando a muoversi soltanto nella notte. Il 19° Rgt. della Brigata Brescia rimase sul fronte del monte San Michele fino al 15 gennaio 1916 e, anche se aveva vissuto nella trincea in un periodo di relativa quiete, Ungaretti fu costretto a sostenere le tristissime condizioni della vita in trincea.

 

Dal 10 marzo 1916 Ungaretti era di nuovo nelle trincee sotto il San Michele, questa volta per un turno lungo e alquanto burrascoso, che prosegui fino al 7 aprile, turno che incluse la quinta battaglia dell’Isonzo.

 

L’attacco, iniziato il 13 marzo, dopo due giorni di incessanti bombardamenti, impegnò anche la 223 Divisione con le Brigate Brescia e Ferrara, portate all'attacco tra il San Michele e San Martino. La riserva divisionale del 19° Rgt. terminò il 7 aprile 1916 e il reparto ritornò a Versa per altri venti giorni di riposo.

 

Da Versa Ungaretti scrisse parole amare, come quelle del 23 aprile all’amico Gherardo Marone:

“Dopo la guerra, se non mi uccidono, c’incontreremo - Ho deciso oggi - dopo molto pianto - quel terribile pianto che non si scioglie - che sempre ci pietrifica dentro - di rimanere in silenzio” Se in trincea Giuseppe Ungaretti era un soldato, a Versa Ungaretti forse manifestava per la prima volta dopo diverso tempo, il suo essere poeta e come la sua passione per la letteratura e la poesia avrebbero’avuto valore nella sua vita futura.

 

Non passarono che pochi giorni da questi episodi che Ungaretti, fu costretto a ritornare in trincea sotto il San Michele. La partenza per lui non fu tranquilla se il poeta scrisse a Papini: “mi contraggo in un pianto ch’è una pietra” (...) é il mio pianto che non si vede”. Ungaretti il 28 aprile 1916, (...) assieme al suo Reggimento, ritornò in trincea, nella località che porta “l’altro nome di Santo, lì vicino”.

 

Si tratta di San Martino del Carso, il paese oramai ridotto ad un cumulo di rovine e solidamente tenuto dagli Austro-Ungarici, mentre il Reggimento di Ungaretti era alla sommità di Bosco Cappuccio, sul versante italiano di q. 197, la quota del Groviglio e degli camminamenti in trincea, come Ungaretti descrisse a Papini: “(...) stamani mi sono aggirato per questi budelli; c’è una fila ininterrotta di uomini stesi in lungo addosso a una parete; rasento l’altra per passare; la sola luce delle feritoie; un uomo erra di feritoia in feritoia, il fucile imbracciato, cercando la preda: in certi punti i nemici sono a tre metri; ora riposano: c’è una gran quiete”.

 

Tra la notte del 14 e 15 maggio reparti ungheresi tentarono di occupare alcune trincee nei pressi della Sella di San Martino e al Groviglio, ma vennero respinti dalla pronta azione dei fanti del Terzo Battaglione.

 

“All’alba c’è stato un putiferio del diavolo” annotò Ungaretti il 15 maggio.

 

Un’altra testimonianza rilevava lo sfascio del secondo battaglione: “...Schianti rossi, vividissimi, in mezzo ai quali nettamente si distinguevano proiettati in alto, in uno svolazzante macabro di fantocci, corpi umani fatti a brani; gambe, braccia, torsi stroncati. Una vera bolgia dantesca...”.

 

“Notte 14 sul 15, inferno! - Ce la siamo cavata bene” scrisse Ungaretti a Papini, confermando la sua partecipazione all’azione con l’orgoglio di avere fatto il proprio dovere.

 

Il 20 maggio, la Brigata Brescia ricevette finalmente il cambio e il 19° Rgt. di Ungaretti si avviava nelle retrovie, a Versa, per il consueto periodo di riposo e proprio in questa occasione che scrisse alcune poesie destinate in seguito a confluire nel Porto sepolto.

 

(La sua brigata) lasciò il fronte due giorni prima dell’attacco austro - ungarico con i gas che avrebbero decimato il resto del suo Reggimento. A Mariano del Friuli, Ungaretti scrisse alcune poesie del Porto sepolto (Silenzio e Peso) e vi rimase fino al 15 luglio.

 

Scaduto questo termine, il 19° Rgt. ritornò sulle trincee del San Michele.

II Terzo Battaglione li seguì il giorno successivo, lasciando il tempo a Ungaretti di concludere una delle sue poesie più splendide “Fratelli” datata appunto 15 luglio 1916.

 

Il 6 agosto le diverse Divisioni dopo un bombardamento intensivo, attaccarono e, dopo accaniti combattimenti, tra la notte del 9 e del 10 agosto, le unità di cui Ungaretti faceva parte, costrinsero alla ritirata le truppe ungheresi e conquistarono il monte San Michele.

 

La battaglia per la conquista di questo monte era finita.

 

Dopo quindici mesi non si combatteva più; la guerra, almeno per il momento si allontanava.

La natura, ri conquistata dopo mesi di fango e trincea, apriva il cuore alla vita dei combattenti mentre lo spazio, il cielo e il mare rappresentavano per Ungaretti altrettanti stimoli essenziali per il suo spirito di poeta.

 

Oggi, una statua a grandezza naturale di Giuseppe Ungaretti è stata collocata nel parco del palazzo di Castelnuovo, a ricordo di questo grande poeta che ha vissuto, assieme ai suoi compagni, quei tremendi avvenimenti che si sono succeduti sul territorio carsico.