ATTACCO FRONTALE E AMMAESTRAMENTO TATTICO


Attacco frontale e ammaestramento tattico» | Atlante della Grande ...

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L’operato del capo di Stato Maggiore Luigi Cadorna durante la neutralità fu anche inteso a rendere diffuse le proprie dottrine d’impiego nell’addestramento tattico.

Alla fine di febbraio del 1915 veniva data alle stampe, su sua diretta ispirazione, una pubblicazione ufficiale riguardante i dettami della tattica: la Circolare Attacco frontale e ammaestramento tattico.

Il «libretto rosso» rappresentò la principale direttiva di condotta tattica con cui l’esercito italiano entrò nel confitto, volendo costituire un vero sommario di preparazione dell’ufficiale alla guerra.

Esso aveva carattere sintetico e tassativo; era fondato su pochi concetti che, calati nella pratica degli esercizi, avrebbero dovuto rafforzare l’unità di dottrina.

La Circolare imponeva in senso rigidamente dogmatico l’azione frontale, scaglionata e metodica, a successione di ondate, portata con un continuo movimento in avanti

(«un’azione contro un fianco si risolve in un’azione frontale quando l’avversario abbia spostato le sue riserve per fronteggiarla»).

L’istruzione trovava fuor di dubbio radicamento in vecchi studi del generale, seppure in chiave di riformulazione, e nel contesto psicologico e sociologico proprio del milieu militare.

Ma, esempio di un pensiero condiviso anche dalla maggior parte dei responsabili militari europei, essa era primariamente un accomodamento alle tendenze e mentalità dominanti nella cultura militare dell’epoca:

ovunque l’istruzione tattica già si fondava sull’attacco frontale.

Né divergeva dall’offensivismo di tutta la recente compilazione tattica italiana, il cui rinnovamento era stato avviato anni prima alla luce degli insegnamenti dei conflitti anglo-boero e russo-giapponese.

Alcuni insegnamenti e cautele della guerra di posizione nondimeno entravano nello scritto:

la circolare cadorniana riconosceva che la fanteria non poteva giungere alla posizione nemica senza il conseguimento della superiorità di fuoco della propria artiglieria;

che l’attacco doveva esser dato da linee non dense di armati, e a sbalzi, salvo nel momento dell’irruzione;

che l’avanzata doveva procedere curando la copertura e si sarebbe potuta avvalere di trinceramenti;

che la vulnerabilità delle forze attaccanti era cresciuta.

Ma lo sforzo concettuale rispetto alle analisi dei conflitti d’inizio secolo era scarso:

la tesi centrale sosteneva che le manovre avvolgenti erano rese impraticabili dal prolungamento dei fronti e che l’attacco perciò sarebbe dovuto risultare in ogni caso frontale.

Altri aspetti caratterizzanti dell’offensivismo ad oltranza, particolarmente in auge in certi ambiti del pensiero militare francese anteguerra, risiedevano nel continuo rimarcare i vantaggi del sentimento offensivo, in specie morali

(il morale dell’attaccante contrapposto alla demoralizzazione dell’avversario),

con il sacrificio della protezione e con il rendere spedita ed energica l’entrata in azione;

nella considerazione che il conflitto europeo solo in apparenza sembrava contraddire la superiorità della guerra manovrata e dell’offensiva.

Di certo, questi assiomi non lasciavano spazio a diverse, pur problematiche e ancora interrogative, letture della guerra tra le nazioni, né alla ricerca di altri sviluppi e metodi offensivi.

La rigidità di pensiero, accentuato dalla tendenza precettistica e da una certa meccanicità operativa, si manifestava soprattutto nella conclamazione dell’identità fra spirito offensivo e forza morale: la coesione materiale era vista come premessa di quella morale e dello spirito di vittoria.

Per inciso, Cadorna non era indifferente alle novità che interessavano le fortificazioni provvisorie, da campagna.

Di suo impulso fu emanata infatti, nello stesso periodo, una circolare sui lavori nel campo di battaglia

(Circolare n. 250, 10 febbraio 1915).

Nondimeno, le opere di rafforzamento ‒ peraltro semplici ‒ venivano accolte come ausilio d’attacco, in stretta unione con la manovra.


IL GENERALE GRAZIANO:

“CAPORETTO, UNA SCONFITTA NON UNA DISFATTA”

 

Le forze armate italiane, a Caporetto, vissero la loro disfatta più terribile.

«Non fu una disfatta. L’8 settembre fu una disfatta».

 

E Caporetto?

«Fu una gravissima sconfitta. Che portò alla vittoria. Senza Caporetto non ci sarebbe stata Vittorio Veneto. L’esercito si riprese.

Accadde una cosa mai accaduta, né prima né dopo: il Paese intero scese in guerra.

E, brutto a dirsi, cominciammo a odiare il nemico. Capimmo che era in gioco la sopravvivenza dell’Italia.

Fu la nascita, o la rinascita, della nazione».

 

Com’è stato possibile il crollo?

«C’erano i tedeschi. Le forze imperiali germaniche furono fondamentali nello sfondamento.

Due mesi prima sulla Bainsizza eravamo andati vicini a vincere la guerra, anche se non ce n’eravamo accorti.

Alla spallata successiva l’Austria sarebbe crollata; per questo chiese aiuto alla Germania».

 

Quale fu la responsabilità di Cadorna?

«Il comandante in capo è sempre il primo responsabile; anche se Capello, il comandante della seconda Armata, non mise in atto tutte le prescrizioni. C’era stata una regressione nella qualità di comando.

Mancò il controllo dell’artiglieria».

 

Come mai i cannoni di Badoglio tacquero?

 

«La commissione d’inchiesta fu severa con tutti tranne lui, che al fianco di Diaz stava riorganizzando l’esercito.

Ma a Caporetto sbagliò: non riuscì a far arrivare l’ordine di aprire il fuoco, e i suoi ufficiali non avevano l’autonomia che avevano i pari grado tedeschi».

 

Quali sono le altre cause di Caporetto?

 

«Venne usato il gas. Non vi fu la percezione del disastro: era una giornata di nebbia e pioggia.

Le prime linee combatterono. Poi le retrovie crollarono.

La stanchezza per due anni e mezzo di “inutile strage”, la propaganda disfattista, gli effetti della rivoluzione russa:

queste percezioni filtravano.

Purtroppo Cadorna non colse quella stanchezza morale».

I soldati andavano all’assalto piangendo.

«Sull’Ortigara, nell’offensiva del ‘17 sull’Altipiano di Asiago, si comprese che era finita la fase eroica delle prime battaglie.

I fanti andavano alla morte rassegnati.

Eppure continuavano ad attaccare, con un’abnegazione ammirata più dai nemici che dagli alleati, come i francesi, che continuavano a criticarci».

Ci sono troppe vie dedicate a Cadorna?

 

«Cent’anni dopo non si può mettere in discussione la memoria.

Ho studiato la personalità di Cadorna alla Scuola di guerra americana.

Era un uomo rigido, con problemi di comunicazione e poca capacità di empatia.

Ed era un comandante vigoroso, che seppe gestire due momenti fondamentali: fermò la spedizione punitiva sugli altopiani, e preparò le linee sul Piave e sul Grappa, dando sia pure in ritardo gli ordini che hanno permesso di salvare il Paese.

L’elemento negativo fu la tentazione iniziale di dare la colpa di Caporetto ai soldati. Questo un capo non può farlo.

Mai. I soldati caduti o che stanno combattendo li devi sostenere.

Rimpiazzare chi ha ceduto, ricreare il morale. Purtroppo il generale delle battaglie non ha mai saputo diventare il generale della vittoria».

 

È giusto riabilitare i fucilati?

 

«Nessun Paese l’ha fatto. Gli inglesi hanno decretato un “perdono collettivo”.

All’epoca il senso della vittoria prevaleva su altri sentimenti; il codice militare risaliva all’800 ed era molto rigido; ci furono eccessi nell’applicazione della pena di morte.

Nei momenti di crisi c’era l’esigenza di mantenere la solidità dell’esercito».

Ci furono fucilazioni di massa.

«Infatti è giusto distinguere tra i processi celebrati regolarmente, dove non ci può essere revisione di

 

giudizio, e le esecuzioni sommarie. Tra chi ha commesso il fatto rischiando di mettere a rischio la stabili-

tà del fronte, e le vittime delle decimazioni. Tra chi ha combattuto e chi è fuggito. I friulani e i veneti

 

delle terre occupate videro soldati battersi per proteggerli e altri ritirarsi. Oggi noi dobbiamo riconoscere

il giusto merito ai valorosi, e pensare con pietà a tutti i caduti. Una forma di rispetto nazionale».

Ma quella guerra era meglio non farla.

 

«Non potevamo non farla. Tutti i Paesi europei, le potenze ma anche gli Stati balcanici, stavano combat-

tendo. E noi non eravamo isolati come la Spagna. Prima o poi saremmo stati coinvolti».

 

Come spiega la rinascita sul Piave?

«Tutto accade in pochi giorni. La linea tiene sul Grappa. Il 16 novembre nella battaglia di Fagaré entrano

in linea i ragazzi del ’99, accanto ai fanti della Terza Armata ritiratisi dal Carso.

Quella prima vittoria fu un raggio di luce nel momento della disperazione.

A dicembre la grande battaglia d’arresto sul Piave era vinta. I tedeschi ritirarono i loro contingenti».

 

Come fu possibile?

 

«I fanti compresero che la sconfitta non avrebbe portato la pace, ma la disgregazione nazionale.

Realizzarono che non c’era altra via che resistere e vincere. Combattevano per salvare le loro famiglie e il Paese.

Fu anche merito del vecchio capo, che aveva costruito linee e riserve.

E poi per la prima e unica volta nella storia l’esercito ebbe dietro tutto il Paese. Comincia la guerra totale, animata da una totale volontà di vittoria.

Le fabbriche costruiscono più aeroplani nell’anno tra Caporetto e Vittorio Veneto che in tutta la seconda guerra mondiale. Le donne dimostrano di saper fare gli stessi lavori degli uomini, magari meglio.

Si impongono regole militari anche ai civili. E si sviluppano l’odio e l’aggressività verso il nemico».

Fino a quel momento non odiavamo gli austriaci?

«No, tranne alcuni di noi. I bergamaschi, intrisi di cultura risorgimentale e garibaldina.

I valdostani, considerati i soldati perfetti: rudi montanari e cacciatori, da sempre erano la guardia dei Savoia,

combattevano gli austriaci da sei generazioni. Infatti bergamaschi e valdostani ebbero la più alta percentuale di

caduti.

Tutto cambia di fronte allo stupro del Friuli, all’occupazione, alla violenza contro i civili». (...)

Aldo Cazzullo - Il Corriere della Sera