MONFALCONE ALLA 2 GUERRA MONDIALE


Monfalcone fu un importante centro industriale e strategico durante la seconda guerra mondiale.

La città ospitava numerosi cantieri navali, che producevano navi militari per la Regia Marina italiana.

La sua posizione, sulla costa adriatica, la rendeva anche un obiettivo importante per le forze alleate.

Cantieri navali di Monfalcone

I cantieri navali di Monfalcone erano uno dei più importanti centri di produzione navale dell'Italia.

Durante la seconda guerra mondiale, i cantieri costruirono una serie di navi militari, tra cui sommergibili, cacciatorpediniere e incrociatori.

I cantieri erano anche utilizzati per la riparazione e la manutenzione di navi militari danneggiate.

All’inizio del 1947, dopo la firma del trattato di pace (10 febbraio) e il ritorno della sovranità italiana nell’Isontino (Gorizia e Monfalcone), più di duemila operai dei Cantieri navali di Monfalcone, uno dei principali del Mediterraneo, lasciano il lavoro, le case e l’Italia per raggiungere i Cantieri di Fiume e Pola e altre località della vicina Jugoslavia, dove sperano di vivere in una società libera e più giusta.

 

Nel 1947, più di duemila operai e tecnici dei Cantieri navali di Monfalcone, provenienti da varie località del Friuli Venezia Giulia, minacciati dai licenziamenti a causa della crisi produttiva, decisero di emigrare spesso con le famiglie in Jugoslavia, dove era richiesta manodopera specializzata. I “duemila” scelsero di varcare il confine anche per una convinta scelta politica.

Ai duemila operai dei Cantieri si aggiunse anche un migliaio di lavoratori, operai e contadini provenienti da altre località della regione. In seguito, la delusione per le condizioni di vita e la scelta di appoggiare Stalin contro Tito dopo la “scomunica” del partito comunista jugoslavo in seguito alla Risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948, causarono una sconfitta bruciante che ebbe devastanti ripercussioni sulle vite personali e familiari: dal ritorno a casa alla detenzione nei gulag di Tito, tra i quali “l’inferno” di Goli Otok.

 

Questa conclusione tragica è una delle vicende più drammatiche, ma ancora poco conosciute della storia novecentesca della Venezia Giulia, per lunghi anni rimossa e solo recentemente studiata dalla storiografia per lo più locale. I fatti rinviano a una complessità di questioni non ancora del tutto analizzate e rielaborate.

E’ un tema storiograficamente complesso, perché vi si intrecciano, spesso in modo contraddittorio, fattori, motivazioni e dipanarsi di avvenimenti storici. Ma proprio per questo, può tradursi in un’efficace attività didattica.

In particolare, l’interesse può riguardare l’incrocio tra condizioni lavorative all'interno di una grande fabbrica moderna nell'area del confine orientale, le rivendicazioni economiche e gli ideali di rinnovamento sociale e politico in un’ottica di appartenenza alla classe che preferisce la solidarietà e la fratellanza rispetto alle contrapposizioni tra nazionalismi.

Campo di concentramento di Monfalcone

Con l'armistizio dell'8 settembre 1943, Monfalcone fu occupata dalle truppe tedesche.

I tedeschi continuarono a utilizzare i cantieri navali per produrre navi militari, e la città fu anche sede di un campo di concentramento per i prigionieri di guerra alleati.

Il campo di concentramento di Monfalcone era situato nella zona industriale della città, e ospitava circa 500 prigionieri di guerra. I prigionieri erano costretti a lavorare nei cantieri navali e in altre industrie locali.

Le condizioni di vita nel campo erano molto dure, e molti prigionieri morirono a causa di malattie o malnutrizione.

Bombardamenti di Monfalcone

 

Ricordiamo che Monfalcone nella Seconda guerra mondiale aveva circa 20 mila abitanti.

Una città che ha subito una devastazione importante durante la Seconda guerra mondiale soprattutto a causa dei ripetuti bombardamenti aerei.

Furono ben sette quelli ricordati nella medaglia d'argento al Valor militare conferita alla città, e 143 furono le vittime civili di Monfalcone durante quel conflitto.

Anche se in realtà le vittime in relazione ai bombardamenti in città vengono individuate in più di sette date e quella peggiore che segnò il maggior numero di vittime fu certamente quella 12 aprile del 1944.

 

 Le altre date che riportano vittime in relazione ai bombardamenti sono:

·        20 aprile del 1944

·        21 aprile del 1944

·        1° maggio del 1944

·        25 maggio 1944

·        4 marzo 1945

·        5 marzo 1945

·        16 marzo 1945

 

·        17 marzo 1945

Liberazione di Monfalcone

La storia della frontiera orientale è segnata da due aspetti fondamentali.

Dal settembre del 1943, con la costituzione del Litorale Adriatico, il territorio della Venezia Giulia fu annesso, di fatto, al Reich hitleriano subendone il dominio ideologico, politico ed economico; mentre, dopo la fine della guerra e fino al 15 settembre 1947, l’Isontino (Gorizia e Monfalcone) fu attraversato da conflitti e lacerazioni che procrastinarono l’instaurarsi della pace e delle regole democratichezione di Monfalcone

Il 1º maggio 1945, Monfalcone fu liberata dalle truppe jugoslave.

La città era stata gravemente danneggiata dai combattimenti e dai bombardamenti.

Molte persone erano state uccise o ferite. La ricostruzione della città fu un compito lungo e difficile.


FUGA DALL’UTOPIA

LA TRAGEDIA DEI “MONFALCONESI”

anni 1947-1949


L’amministrazione angloamericana, che subentrò a quella provvisoria partigiana, ripristinò la legalità del vivere civile, ma di fatto escluse dal governo del territorio le popolazioni che lo abitavano.

Dal punto di vista della partecipazione politica, gli Alleati avevano portato una democrazia formale, con le libertà di pensiero, parola e opinione, l’uguaglianza tra i cittadini ed alcune importanti forme di assistenza economica e sociale in regioni martoriate da una guerra durissima.

Ma non avevano portato la democrazia dell’autogoverno delle comunità, delle elezioni libere e degli amministratori scelti dal popolo.

A Monfalcone non si votò per il referendum nel quale il resto d’Italia scelse tra monarchia e repubblica, come non si votò per la Costituente o per le amministrazioni locali. In assenza di elezioni, i partiti utilizzarono la piazza non solo per esporre le proprie idee e programmi, ma anche per valutare la propria forza, e per imporre la propria visione del mondo agli amministratori alleati.

Per questo motivo, vi furono manifestazioni politiche che degenerarono nella violenza.

 

IL “CONTROESODO”

 

In questa situazione, dove la legalità imposta dagli Alleati da molti veniva vista come parziale e poco rispondente agli ideali perseguiti durante la guerra partigiana di liberazione, e nella prospettiva ormai concreta del ritorno della sovranità italiana nell’Isontino, a Gorizia e a Monfalcone, tra la fine del 1946 e la metà del 1948, un numero notevole di lavoratori dei Cantieri navali di Monfalcone emigrò nella giovane Repubblica federativa socialista jugoslava. Allo stato attuale delle ricerche non ci sono elementi quantitativi definitivi, anche per le difficoltà di recuperare i dati nelle anagrafi comunali.

Ma da varie fonti italiane e slovene si può ricavare che dai Cantieri di Monfalcone si spostarono in Jugoslavia tra i duemila e i duemilacinquecento operai, pressappoco un quinto del totale delle maestranze allora impiegate.

Partirono per la Jugoslavia anche diverse famiglie contadine e coloniche delle zone limitrofe, del Gradiscano, del Cormonese, della Bassa Friulana. Inoltre, alcune testimonianze raccontano di partenze dal Pordenonese e dalla Carnia.

Un intreccio di motivazioni è alla base di quello che è stato definito nel linguaggio popolare come il “contro esodo”. Il termine marca la contemporaneità di due fenomeni di peso diverso e di segno contrario.

A fronte dei trecentocinquantamila esuli dall’Istria che scelsero, a partire dal 1947, di abbandonare le proprie case in seguito all’occupazione jugoslava delle terre dell’ex Regno d’Italia, spinti dalla paura o dai cambiamenti avvenuti nei loro paesi di origine, i lavoratori monfalconesi attratti dal mito jugoslavo decisero invece di contribuire con la propria competenza ed esperienza professionale alla costruzione di una società socialista in cui avevano creduto con convinzione.

Nella nuova Jugoslavia parecchie persone vedevano la possibile realizzazione delle molte liberazioni cui aspiravano: una società che avrebbe dovuto fondarsi sull’uguaglianza, un’economia dove i gruppi di lavoratori potevano autogestire la propria attività, una forma politica federale che avrebbe dovuto tutelare le specificità locali e gli interessi dei cittadini.

 

Molti scelsero la nuova patria come effetto della propria militanza politica. Come scrive Galliano Fogar nell’introduzione alle Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra:

Il comunismo monfalconese aveva svolto fra le due guerre un’azione cospirativa e mobilitante, lunga e tenace, dentro e fuori il Cantiere navale monfalconese, grande struttura della navalmeccanica nazionale, irradiandosi non solo nell’area isontina della provincia ma in quella finitima carsica e basso-friulana.

Nella storia dell’attività clandestina del partito in Italia, quella dei militanti monfalconesi era stata una delle più significative anche con la partecipazione di operai e contadini sloveni e perché nel suo svolgersi, fra gravi persecuzioni e perdite, aveva coinvolto centinaia di famiglie di un vasto territorio che andava dal Friuli orientale da una parte e il Carso tra Monfalcone e Trieste dall’altra e nella stessa città di Trieste che forniva nuclei operai al Cantiere monfalconese.

 

LA CONCENTRAZIONE INDUSTRIALE DI MONFALCONE

 

Tra le due guerre, il mandamento di Monfalcone, nel basso Isontino, era una zona di grande concentrazione industriale.

Le principali fabbriche di Monfalcone erano, oltre ai Cantieri, un lanificio, una raffineria di olio, una fabbrica di soda Solvay, una di pece, una di scatole di latta, una fabbrica di prodotti chimici.

Alla fine degli anni Trenta, le fabbriche nel complesso occupavano circa ventimila operai. L’industria navalmeccanica dei Cantieri del gruppo CRDA (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) costituiva uno dei maggiori complessi italiani del settore.

 Il gruppo formalmente costituito nel 1930 era una delle grandi eredità dell’Impero austro-ungarico che nell’area di Trieste, Muggia, Monfalcone aveva il suo più importante centro di costruzioni navali e di motori marini.

I nuovi modi di produzione del grande complesso industriale monfalconese segnarono profondamente tutta la zona meridionale dell’Isontino e anche in parte il Basso Friuli che fornivano la manodopera ai Cantieri di Monfalcone.

 La crescita di una classe operaia modificava gli usi, le tradizioni e strutture di un mondo contadino composto in gran parte di piccoli proprietari, mezzadri e braccianti spesso costretti all’emigrazione a causa della miseria e di patti agrari iniqui.

 La fabbrica, inoltre, era il centro di un forte movimento operaio che nel partito socialista prima e in quello comunista dopo il 1921, trovava il suo sbocco ideologico e organizzativo. Uno dei dati più importanti fu la formazione di una coscienza internazionalista in una comunità italiana di confine che includeva una consistente minoranza slovena (Carso goriziano e triestino) vessata dallo sciovinismo fascista.

IL MOVIMENTO COMUNISTA

 

Negli anni della dittatura fascista operarono in Cantiere clandestinamente cellule comuniste da cui dipendevano altre cellule sparse sul territorio.

La loro attività principale era il Soccorso Rosso cioè la raccolta di fondi per gli arrestati e i condannati dal Tribunale speciale.

Era un’esperienza di solidarietà militante. Il Soccorso Rosso, dopo l’annessione della provincia di Lubiana allo stato italiano (1941) e l’inizio della resistenza slovena, fu uno strumento logistico paramilitare in collegamento con i partigiani sloveni ai quali giungevano denaro, medicinali, viveri.

Il movimento poi diede un forte apporto di quadri e militanti al movimento partigiano dopo l’otto settembre.

La saldatura tra antifascismo politico e Resistenza armata fu molto marcata perché già dal 1942 fu anticipata dai collegamenti tra comunisti locali e organi politici e militari sloveni operanti nel retroterra della provincia.

Lo scenario della lotta a fianco delle formazioni slovene con il partito comunista sloveno in posizione dominante e in una zona, fra l’Isonzo e il vecchio confine a netta prevalenza slovena, ebbe dunque un carattere plurinazionale e uno sviluppo non sempre facile per gli “steccati” eretti dalla fallimentare politica fascista. I nodi apparvero alla fine risolti con l’inquadramento militare, operativo e politico nell’esercito sloveno in contrasto con gli accordi presi con il PCI nazionale nel 1944, di una parte delle formazioni italiane. […]

L’affinità ideologica fra partiti comunisti, il marcato internazionalismo d’impronta filosovietica dei comunisti italiani, alimentarono in parecchi dirigenti e militanti, la convinzione di una soluzione di “classe” della guerra partigiana, propiziata dalla presenza egemonica dei comunisti di Tito.

Dopo l’otto settembre del 1943, gli operai di Monfalcone diedero o vita a un’insurrezione spontanea, la “Brigata Proletaria”, la cui struttura politica era formata da militanti comunisti, già attivi e perseguitati durante il ventennio fascista.

 In seguito, dopo la sconfitta nella Battaglia di Gorizia, molti lavoratori in fuga entrarono nelle formazioni partigiane sia collaborando con l’esercito popolare jugoslavo sia combattendo all’interno dello stesso come nel caso della formazione italiana “Fratelli Fontanot” che, nata nel dicembre del 1944, operò sempre alle dipendenze del VII Corpus sloveno nel territorio della Bela Krajina e della Suha Krajina in Slovenia.

L’ISONTINO, UNA REGIONE CONTESA

 

Alla fine della guerra, nel 1945, a differenza di quanto accadeva nel resto d’Italia con il lento avvio dell’economia e la ricostruzione democratica, nell’Isontino il problema principale fu la questione dell’appartenenza statale: dai quaranta giorni dell’occupazione jugoslava con l’insediamento dei poteri popolari (1 maggio – 12 giugno 1945) ai due anni del Governo Militare Alleato (12 giugno 1945 – 15 settembre 1947) che controllava e gestiva direttamente la politica locale.

La questione del confine determinò una spaccatura netta e profonda tra chi chiedeva l’annessione alla Jugoslava socialista e chi si battesse per rimanere in Italia nel nuovo stato repubblicano. Così la vita civile fu lacerata da tensioni e conflitti.

È in questa situazione che si determina la partenza per la Jugoslavia di migliaia di lavoratori.

Nell’autunno del 1946 si erano concluse le trattative internazionali sull’appartenenza statale della Venezia Giulia.

Questo territorio, dopo quaranta giorni di occupazione jugoslava nel maggio del 1945 con l’insediamento dei poteri popolari, era stato diviso in via provvisoria in due zone.

 La Zona A, amministrata dal Governo Militare Alleato (GMA), anglo-americano, era costituita dalle province di Gorizia e di Trieste e dalla città di Pola, L’Istria e la città di Fiume, invece, formavano la Zona B, posta sotto amministrazione militare jugoslava.

Da quel momento la situazione del confine italo – jugoslavo fu argomento di discussione e mezzo di lotta politica a livello locale e internazionale. In seguito, gli accordi del luglio del 1946 sistemarono il passaggio definitivo di Gorizia e Monfalcone all’Italia e la creazione di un Territorio Libero comprendente la città di Trieste sotto amministrazione anglo-americana. L’Istria rimaneva sotto il governo militare jugoslavo, compresa la città di Pola [doc.3].

IL MOVIMENTO COMUNISTA, FRA ITALIA E JUGOSLAVIA

 

Fino all’estate del 1946, il partito comunista della Regione Giulia (PCRG), che era nato il 12 agosto 1945 sulla base di un accordo tra il partito comunista italiano e sloveno, si era impegnato per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia Socialista.

 Era questa una scelta condivisa con sincera convinzione da una buona parte dai militanti del PCRG.

 Le prime manifestazioni organizzate del partito giuliano erano espressione di un internazionalismo che considerava l’appartenenza alla multinazionale e rivoluzionaria Repubblica Federativa di Jugoslavia una soluzione più vicina agli interessi di classe del movimento operaio locale

 L’Unione antifascista italo – slovena (UAIS), l’organizzazione di massa legata ai due partiti comunisti italiano e sloveno, sosteneva la fratellanza tra le diverse nazionalità e rifiutava la divisione della Venezia Giulia in due zone. Ben presto le organizzazioni del partito della Regione Giulia dovettero affrontare le organizzazioni dei partiti e dei movimenti filo-italiani appoggiate dallo stesso Governo militare alleato.

La tensione più forte si ebbe alla fine di giugno del 1946, quando alcuni militanti del partito giuliano bloccarono poco oltre il ponte sull’Isonzo a Pieris i ciclisti del Giro d’Italia, diretti a Trieste nel quadro di un’operazione gestita dall’autorità italiane in funzione propagandistica.

 Il blocco scatenò una reazione delle squadre filo-italiane che diedero vita a episodi di violenza con incendi di sedi comuniste e slovene a Trieste e nell’Isontino.

Ne seguì uno sciopero generale proclamato dai Sindacati Unici (SU) legati al partito comunista giuliano. Lo sciopero fu dichiarato illegale dal GMA: l’intero comitato per sfuggire all’arresto riparò nella zona B. Lo sciopero finì il 12 luglio del 1946 con la sconfitta delle organizzazioni comuniste. Tre furono i morti, 138 i feriti e oltre 400 gli arresti.

Alla vigilia della firma del trattato di Pace del febbraio del 1947 fu data, per la prima volta, in assemblee tenute a livello locale e sulla stampa, la direttiva da parte dei quadri sindacali e di partito per operai, tecnici, militanti, di trasferirsi definitivamente in Jugoslavia.

I DUE ESODI

 

In questo stesso periodo dall’Istria, e soprattutto dalla città di Pola, si stava avviando l’uscita di migliaia e migliaia d’italiani.

Ci fu il tentativo di contrapporre i due esodi in termini propagandistici, ma la direttiva del PCRG, dei Sindacati Unici e dell’UAIS di emigrare nella vicina Repubblica, incontrò l’entusiasmo tra i lavoratori che diedero vita a un’emigrazione imponente che superò le previsioni e sconvolse la strategia dello stesso partito, costringendolo a una parziale retromarcia.

 Peraltro, le partenze non venivano ostacolate dal Governo Militare Alleato.

I motivi che stavano alla base delle partenze erano diversi e intrecciati tra di loro: la volontà di contribuire in prima persona alla costruzione del socialismo in Jugoslavia; l’esito deludente delle trattative sulla questione dei confini;

la previsione di un drastico ridimensionamento delle maestranze in Cantiere [doc.5]; l’obiettiva carenza di operai qualificati e di tecnici nei Cantieri di Pola e Fiume; le violenze delle squadre nazionalistiche e neo-fasciste contro gli attivisti politici e sindacali. Infine, pesò una certa tradizione austro-ungarica che aveva sempre visto nell’Italia una realtà sociale ed economica arretrata.

L’ACCOGLIENZA IN JUGOSLAVIA

 

Inizialmente, l’accoglienza ricevuta dai lavoratori emigrati, in particolare a Fiume e a Pola, fu senz’altro positiva.

I lavoratori singoli furono alloggiati nei grandi alberghi delle due cittadine costiere, mentre alle famiglie furono assegnate delle abitazioni dignitose, spesso case lasciate vuote da coloro che si dirigevano verso l’Italia. Trovarono subito lavoro ai Cantieri Tre Maggio e al silurificio Ranković di Fiume, e ai Cantieri Scoglio Olivi di Pola. In questi primi mesi riuscirono anche a inviare ogni mese a famiglie e parenti del denaro [6].

La “Risoluzione” del Cominform (il comitato internazionale comunista, controllato dall’Urss) che sanciva l’espulsione di Tiro dall’organizzazione internazionale dei partiti comunisti del 28 giugno 1948, giunse inaspettata. Cambiò radicalmente la situazione.

Fu un vero terremoto politico: nel Territorio libero di Trieste il partito comunista, nato dopo lo scioglimento del PCRG, si divise. Il Cominform non solo lacerò il movimento comunista italiano e quello sloveno.

I rappresentati dei lavoratori monfalconesi nei Cantieri di Fiume e di Pola presero subito posizione a favore della Russia sovietica.

 Su questa decisione così rapida influì sicuramente l’adesione alle posizioni dell’Urss, propria di molti militanti comunisti; ma furono decisive anche le critiche maturate verso il partito jugoslavo, sia durante la Resistenza sia nel corso dei mesi di permanenza nei Cantieri croati, critiche che fino allora erano passate sotto silenzio.

LA SITUAZIONE SI FA PESANTE

 

Ai primi di agosto 1948, le autorità jugoslave operarono una prima, vasta retata tra gli emigrati italiani, arrestando gli esponenti più in vista del gruppo di Fiume. Dopo un breve periodo di carcere, i prigionieri furono trasferiti sotto sorveglianza su un treno nel villaggio minerario di Zenica, nella Bosnia Erzegovina.

Pare che, alla partenza del treno dalla stazione di Fiume, un gruppo di operai monfalconesi avesse cantato l’Internazionale per solidarizzare con gli internati. A Zenica gli arrestati furono completamente isolati.

La vicenda si chiuse qualche mese dopo con una fuga ben organizzata, grazie al consolato italiano di Zagabria.

Dopo i primi arresti a Fiume e a Pola, i monfalconesi decisero di creare un’organizzazione per la tutela delle famiglie degli arrestati.

Furono predisposte sottoscrizioni, ma questa iniziativa causò una seconda ondata di arresti, a catena, nel corso del 1949.

I prigionieri subirono una sorte peggiore di quella occorsa gli internati di Zenica

All’inizio del 1949, la situazione per il gruppo dei monfalconesi si fece pesantissima, con l’inasprirsi della repressione e del sospetto verso buona parte degli emigrati italiani. Il gruppo operaio si divise a causa di sospetti e delazioni: molti compagni furono ritenute spie “titine” e i sospetti divisero gli stessi gruppi familiari.

 

LA REAZIONE DEI COMUNISTI ITALIANI E LA REPRESSIONE JUGOSLAVA

 

Nello stesso tempo, in forma indipendente dalle vicende del gruppo di monfalconesi, si costituì una cellula clandestina di militanti italiani, con l’obiettivo di operare in favore del Cominform e per abbattere la Jugoslavia di Tito.

A Fiume parteciparono al gruppo anche il lombardo Alfredo Bonelli, il sardo Andrea Scano e il friulano Giovanni Pellizzari.

Reduci dalle prigioni fasciste o dal confino, o anche dalle Brigate internazionali che avevano combattuto in Spagna, intervennero pubblicamente nell’aprile del 1949 con un lancio di manifestini.

Dal 1949, gli attivisti della cellula “cominformista” di Fiume sopportarono il carcere e la deportazione nei campi di detenzione situati nelle isole, da Goli Otok (Isola Calva) all’isola di Svet Grgur (San Gregorio).

 Secondo le indagini di Giacomo Scotti, furono circa una quarantina i monfalconesi che dovettero affrontare mesi ed anni di detenzione durissima e il calvario delle torture delle prigioni  titoiste-

 

Sui prigionieri s’infieriva con lo stroj: pestaggi continui all’arrivo e sbarco nell’isola dove si era costretti a sfilare fra due lunghe ali di detenuti che dovevano colpire senza soste i nuovi arrivati; il bojkot: isolamento totale del boicottato costretto per settimane, anche mesi a lavori pesantissimi e nel silenzio più assoluto; la jazbina: caverna, spelonca con l’interruzione sistematica del sonno al punito, sepolto sotto un ammasso soffocante di coperte e bersagliato da pestaggi improvvisi.

Ma vi erano varianti e “integrazioni” come la proibizione di dissetarsi durante le lunghe ore di un massacrante lavoro, lo stare immersi nell’acqua gelida del mare per tutta la giornata a scavar sabbia e via dicendo.

Oltre alle torture fisiche c’erano i ricatti morali per indurre i prigionieri a trasformarsi in delatori dei loro compagni, a farsi confidenti dell’UDBA anche dopo il rilascio.

Andrea Scano ha lasciato una descrizione intensa della sua esperienza nell’isola di Goli Otok:

Quando sbarcammo, gli internati ci attendevano schierati su due file. Noi dovevamo passare in mezzo … Man mano che si procedeva venivamo colpiti a pugni, calci, sputi, tra urla e insulti di ogni genere … Io non ce la facevo più, la strada era in salita, ero carico della mia roba e indebolito dal carcere e dal viaggio …

Mi sembrava che la doppia fila non finisse mai …

In particolare avevo il fratello di Juretich che mi si era attaccato davanti e continuava a percuotermi sulla faccia …

Ero coperto di sangue, boccheggiavo, e invocavo basta, che la smettesse, che mi lasciasse andare avanti.

Ma lui a insistere e a gridare: sei un cominformista, vero?

Ebbene prendi, prendi, prendi ancora!..

Ogni volta che arrivava un carico dovevamo schierarci e picchiare.

 In pratica si riusciva molto a fingere, e a dare le spinte per aiutare i nuovi arrivati a percorrere più in fretta il loro calvario.

Ma c’erano sempre gli zelanti, come il fratello di Juretich, e alla fine tutti ne uscivano massacrati (…) A differenza dei campi nazisti, a Goli Otok non si uccideva.

Se vi furono dei morti, fu per disgrazia, involontariamente.

L’obiettivo era di umiliarci, fino alla distruzione della nostra identità.

Ma mentre nei campi nazisti la repressione era amministrata direttamente dalle SS, e le SS le vedevi dappertutto, a Goli Otok la repressione era amministrata dagli stessi internati cominformisti.

I titini neanche li vedevi … La fama di Goli Otok era tale che la maggioranza di coloro che vi erano inviati capitolavano prima di arrivarci: cosicché la maggioranza dei nuovi arrivati, mentre subiva le percosse passando tra le due file, inneggiava a Tito e al Partito comunista jugoslavo.

 

Dopo la morte di Stalin, il riavvicinamento tra Jugoslavia e Unione Sovietica fu percepito come un inganno.

 Il partito comunista mantenne per molto tempo il silenzio sulla vicenda e molta documentazione prodotta dai cominformisti fu distrutta.

 

IL RITORNO DEI LAVORATORI

Se la sorte dei militanti più attivi fu la detenzione nei lager di Tito, per le migliaia di lavoratori che si erano spostati tra il 1946 e il 1948 nella vicina Repubblica con la convinzione di trovare una società libera e più giusta, ci fu l’immediato rientro per sfuggire alla carcerazione, alla disoccupazione conseguente ai licenziamenti, all’isolamento.

Coloro che ritornarono non ritrovarono più il lavoro, in alcuni casi neanche la casa.

Delusi, umiliati, e sfiduciati si chiusero nel silenzio e vollero dimenticare. Altri decisero di emigrare nuovamente, diretti in altri paesi d’Europa.

Il PCI manterrà per lungo tempo il silenzio sulla vicenda, giudicando che il ritornarvi sarebbe stato dannoso per le buone relazioni con il Partito jugoslavo e negli stessi rapporti tra Italia e Jugoslavia nel momento in cui questi, dopo la morte di Stalin, segnavano un positivo disgelo. Documenti, relazioni, lettere inviate a suo tempo dagli “agenti” cominformisti, tutto fu bruciato.

 

Ma va detto anche che il PCI non abbandonò i protagonisti di queste vicende, e talora si impegnò per trovare una sistemazione dignitosa ai vari “reduci” dalla Jugoslavia, i quali non sempre dal canto loro accettarono, chiedendo piuttosto di riuscire a riflettere e rielaborare collettivamente l’esperienza drammatica che avevano vissuto.


IL CONFINE ORIENTALE

 

LE MODIFICHE TERRITORIALI DAL 1924 AL 1954


Il confine del Regno d’Italia dal 1924 al 1941


 Il confine del Regno d’Italia dal 1941 al 1943

Zona di operazioni Litorale adriatico: 1943 -1945

Operazioni militari alleate e jugoslave – aprile – maggio 1945. La corsa per Trieste

Venezia Giulia 1945-1947. Linea Morgan

Conferenza di Pace. Parigi 1945-1947. Principali proposte di nuovi confini


Per il primo anniversario del 25 aprile

 

Combattenti della Guerra di Liberazione!

 

A Voi, nell'Annuale della Liberazione, torna l'animo riconoscente e memore dei cittadini.

 

Allorché tutto sembrava perduto, Voi mostraste cosa possano l'amore per la Patria e la fede nel suo avvenire.

E, con il Vostro eroismo, avete arricchito l'epopea italica di nuove gesta.

Rapidamente riordinati, i soldati di una guerra pur sempre eroicamente combattuta tornarono primi all'attacco;

i marinai continuarono a tener alta sul mare la Bandiera mai ammainata; gli aviatori ripresero con l'antico sprezzo della morte, i combattimenti nel cielo, a tutti affiancandosi con fraterna gara di patriottismo, di dedizione e di audacia, i partigiani che ben sapevano di coinvolgere nella lotta anche le loro famiglie.

Queste forze vive ed eroiche diedero alla vittoria delle potenti armi alleate un contributo ogni giorno più evidente e sicuro, ogni giorno più lealmente riconosciuto.

 

Quando un popolo in così aspro travaglio non cede di fronte alla immensità della sciagura ed alla avversità del destino, ma trova nelle fibre profonde della stirpe il coraggio per non disperare e la forza per lottare ancora, quel popolo può alzare la fronte davanti a

tutto il mondo e affermarsi degno di un migliore avvenire.

E questo l'Italia lo deve a Voi, soldati, marinai, avieri e partigiani.

La Patria vi ringrazia.

Viva l'Italia.

Roma, 25 aprile 1946

 

Umberto di Savoia

ISTITUTO DELLA REALE CASA DI SAVOIA

 

Centro studi

 

Lettera del Ministro della Guerra On. Stefano Jacini

 

IL MINISTRO DELLA GUERRA

 

Roma, 14 settembre 1945

 

Altezza Reale,

Dolente che gli impegni dei quali ho parlato stamane a V.A.R. non mi permettano di essere presente domani a Roma, rinnovo sin d’ora, a nome dell’Esercito e mio i più devoti auguri per il genetliaco di V.A.R.

Colgo con piacere questa occasione per rimettere a V.A.R. il distintivo della vittoriosa campagna di liberazione 1943-45 alla quale V.A.R. ha partecipato direttamente, insieme al primo Raggruppamento motorizzato, al Corpo Italiano di Liberazione e coi gruppi di combattimento.

 

Le truppe, che hanno visto V.A.R. sulle linee di combattimento dal Volturno a Bologna,saranno fiere di vederla fregiarsi di questo umile segno, che ricorda l’opera da essi svolta perla rinascita della Patria.

Con profondo ossequio,

IL MINISTRO

A S.A.R. Umberto di Savoia

Principe di Piemonte

Luogotenente Generale del Regno

Roma

 

 


LA GUERRA DI LIBERAZIONE

 

La Monarchia sabauda viene spesso accusata di non aver contribuito alla cosiddetta “guerra di liberazione”, cioè

alla lotta contro i nazisti e i nazi-fascisti della Repubblica Sociale Italiana. L’accusa è totalmente infondata.

Ecco una breve sintesi dei fatti che lo dimostrano.

 

Basandosi sul giuramento di fedeltà al Re e sul contenuto degli ordini diramati, lo Stato fece il possibile per reagire all'aggressione tedesca. Esso poteva contare:

 

1 - Sulle forze armate, composte da unità presenti sia all'interno sia all'esterno del territorio nazionale.

Furono moltissimi i soldati italiani, di ogni ordine e grado, che, fedeli al giuramento prestato al Re e sostenuti dalla popolazione, affrontarono viaggi lunghi e pericolosi per raggiungere i territori controllati dagli alleati ed unirsi alle formazioni regolari dell’esercito. Ricordiamo, fra gli altri, l’asso dell’aviazione silurante Carlo Emanuele Buscaglia, la M.O.V.M. Edgardo Sogno e persino l’ex Presidente della Repubblica, C.A. Ciampi, che però non riuscì ad arrivare al sud e si fermò a Scanno, in Abruzzo.

Non vanno neppure dimenticati gli ufficiali di collegamento con l’8° Armata britannica e con le altre forze alleate, né, ovviamente, i Reali Carabinieri, molti dei quali si sacrificarono generosamente nella guerra di liberazione. Basti ricordare i fatti di Fiesole, delle Valli di Lanzo e delle Alpi Apuane.

Fu proprio di una formazione comandata da un Capitano dei Reali Carabinieri, Ettore Bianco, il primo successo in combattimento contro i tedeschi, conseguito a Teramo il 25 settembre 1943.

 

La resistenza monarchica al nazismo fu la prima a sorgere, conseguenza immediata, senza soluzione di continuità, dell’esercizio del proprio dovere da parte dei militari.

 

E’ monarchico il più giovane caduto nella guerra di liberazione: il sedicenne torinese Gimmy Curreno, portaordini, che cadde gridando “viva il Re!”.

 

2 - Sulle formazioni partigiane monarchiche.

Queste unità, dette anche “autonome” perché non politicizzate, erano costituite proprio da militari che, sorpresi dall'armistizio in territorio sotto controllo tedesco e non potendo raggiungere il sud, prima rifiutarono d’arrendersi e poi si diedero alla macchia, continuando la lotta sotto forma di guerriglia armata. Ricordiamo, fra letante, la formazione piemontese costituita dai soldati della IV Armata, la Brigata “Amendola” del Col. Gancia,la Brigata “Piave”, che operava nel trevigiano, la Brigata “Scordia” di Cavarzerani in Cansiglio, le formazioni dei comandanti Longhi, Genovesi, De Prada e Lombardini, operanti in Val d’Ossola e in Val di Toce, il Reggimento “Italia libera”, che agiva in Carnia, i gruppi operanti in Lombardia e nel Veneto, il gruppo “Berta” di Tullio Benedetti e la di Bosco Martese, che agiva nel Teramano. Ma soprattutto va ricordato l’organismo militare più importante: quello di Enrico Martini Mauri, che operò nel basso Piemonte fino alla fine della guerra di liberazione.

 

Nell'ambito della trasmissione “Passpartout”, andata in onda su RaiTre il 27 dicembre 2005, Giorgio Bocca, ex partigiano e quotato esponente della cultura di sinistra, ha affermato che la resistenza non era soltanto repubblicana, ricordando le numerose formazioni partigiane monarchiche che operavano in Piemonte ed affermando che si trovavano partigiani fedeli al Re anche in “Giustizia e libertà”.

Secondo Eugenio di Rienzo, “nell’estate del 1943, dopo lo “squagliamento” militare dell’8 settembre, tutta la Marina e quel che restava dell’esercito, in Italia e fuori d’Italia, imbracciarono le armi contro Salò e Berlino in ossequio al giuramento che li legava al Monarca e non in obbedienza ai proclami dei comitati antifascisti, in quel momento ancora per lo più assenti o scarsamente presenti sulla scena politica attiva” (cfr. “Il Giornale”, 7giugno 2006).

 

 

A parere di Ugo Finetti, “la lotta armata contro i tedeschi venne iniziata dagli ufficiali legittimisti: un nervo scoperto per chi invece insiste nella letteratura classista della guerra civile, enfatizzando certi scioperi del ’43 e cancellando tutti i militari protagonisti della resistenza, ma Montezemolo a Edgardo Sogno” (cfr. “Libero”, 8 Giugno 2006).

3 - sulle organizzazioni monarchiche clandestine, come l’ “Organizzazione Franchi” di Edgardo Sogno, l’ “Organizzazione Otto” del prof. Otto Balduzzi e il “Centro Militare”, diretto in Roma dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, che coordinava tutte le azioni di resistenza nell’Italia centrale. Capo riconosciuto della resistenza romana, Montezemolo fu la vittima più illustre del massacro nazista delle Fosse Ardeatine.

E vanno ricordate anche le attività di Amedeo Guillet (già eroe della guerriglia italiana in Africa orientale) e di Giorgio Perlasca che, fingendosi ambasciatore spagnolo a Budapest, salvò, a suo rischio, circa 5.000 ebrei ungheresi.

 

4 - sul Quartier Generale di Brindisi che, alle dirette dipendenze del Re, in contatto con gli alleati e qualche volta persino in contrasto con essi, diresse e supportò tutte le attività, da quelle clandestine a quelle sui campi di battaglia. Nel sud del paese l’esercito italiano ebbe il battesimo del fuoco a fianco degli alleati nelle due battaglie di Monte Lungo. Ricostituito su impulso di Umberto di Savoia nel Primo Raggruppamento Motorizzato, il nostro esercito venne rinominato “C.I.L.” (Corpo Italiano di Liberazione) il 17 Aprile 1944, per poi riorganizzarsi su 4 divisioni (“Cremona”, “Forlì”, “Foligno” e “Legnano”) nel Settembre dello stesso anno.

Partecipò agli scontri, valorosamente, anche il Principe Ereditario Umberto. La Commissione Alleata di Controllo vietò al Principe Ereditario di assumere il comando del C.I.L. e cercò di impedirgli di partecipare alle operazioni militari. La stessa commissione vietò perentoriamente anche la partecipazione di Umberto di Savoia alla guerra partigiana. Ma fino a quando poté, il Principe Ereditario non si risparmiò. Riportiamo a questo proposito quanto scrisse il generale americano Clark, comandante della V Armata americana: “il 7 Dicembre 1943, alla vigilia dell’attacco di Monte Lungo, il Principe Umberto credette essere Suo dovere offrirsi per un volo di ricognizione

sulle linee nemiche, data la sua pericolosità ed importanza e dato che questa avrebbe salvato migliaia di vite italiane e americane, come infatti ebbe poi a verificarsi”. Per questa azione il Principe fu proposto dal generale americano Walker per un’alta decorazione militare americana: la Silver Star.

 

Umberto di Savoia fu costretto ad abbandonare l’esercito nel Giugno 1944, a causa della sua nomina a Luogotenente del Re (detto “del Regno”). Nomina imposta dagli alleati e frutto di un marchingegno giuridico escogitato da Enrico De Nicola, futuro Capo dello Stato.

L’esercito regio continuò nel suo sforzo generoso fino al termine del conflitto, liberando molte città italiane e

riscuotendo vivi elogi da tutti i comandanti alleati che lo ebbero alle dipendenze.

Fuori dalla penisola, e specialmente in Sardegna e in Corsica, nei Balcani, a Cefalonia e Corfù, in Egeo, Albania e Dalmazia, la resistenza delle forze armate italiane fu eroica. Si calcola che siano stati almeno 80.000 i soldati italiani morti a causa della lotta contro i tedeschi (fonte: Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito).

Non va dimenticata neppure la resistenza silenziosa nei lager nazisti. Furono infatti decine di migliaia i militari e i semplici monarchici che, catturati dai tedeschi e deportati in campi di concentramento, rifiutarono di collaborare con i seguaci di Hitler, sacrificando la loro libertà per non tradire il Re e, con lui, la Patria. Almeno 70.000

 

pagarono la loro fedeltà con la morte. Lo afferma Gerard Schreiber, in “I Militari Italiani internati in Germania”, (“La Lampada”, 2003).

 

Nello stesso articolo, Schreiber ricorda anche che, nel novembre 1943, il Ministero degli Affari Esteri del Terzo Reich dichiarò alla Croce Rossa Internazionale che gli italiani non erano considerati prigionieri di guerra e che ad essi non spettavano le garanzie previste per tali prigionieri dal diritto internazionale.

Secondo lo storico tedesco, la ragione principale dei maltrattamenti ai danni dei soldati italiani non fu una reazione all'armistizio,

ma derivò da una spiccata motivazione razzista).

In conclusione: fedeli al giuramento prestato al Re ed eseguendo gli ordini ricevuti, le forze fedeli alla Corona,sorrette per quanto possibile dal Quartier Generale di Brindisi, si sacrificarono generosamente nella lotta di liberazione e costituirono il maggior fattore italiano di resistenza al nazismo.