MEDAGLIE AL VALORE MILITARE


Le medaglie al valore militare rappresentano un riconoscimento onorifico per atti di eroismo militare, sia in tempo di guerra che in pace. Queste decorazioni sono assegnate a individui o reparti che si sono distinti per coraggio e dedizione. Ecco alcune informazioni sulle medaglie al valore durante la Prima Guerra Mondiale:

  1. Medaglia d'Oro al Valor Militare: La più alta onorificenza, concessa per atti di straordinario coraggio e sacrificio. Solo 79 di queste medaglie furono assegnate durante la Grande Guerra.
  2. Medaglia d'Argento al Valor Militare: Conferita per atti di coraggio significativi. 8,442 di queste medaglie furono assegnate durante la Prima Guerra Mondiale.
  3. Medaglia di Bronzo al Valor Militare: Riconoscimento per atti di coraggio meno estremi. 14,468 di queste medaglie furono assegnate durante il conflitto.
  4. Croce di Guerra al Valor Militare: Conferita solo in caso di guerra, questa croce è un simbolo di coraggio e dedizione militare.

Queste onorificenze sono state istituite per segnalare gli autori di atti di eroismo militare, indipendentemente dalla loro condizione o qualità, e sono ancora oggi conferite per atti di valore compiuti dalle Forze Armate italiane.


L’OMAGGIO AL MAGGIORE GIOVANNI RANDACCIO

Rimane controversa la data dell’agguato che nel 2017 portò alla morte di questo eroico soldato.

 

Il tempo alimenta l’obblio di tante figure mitiche che sono state protagoniste nella Grande Guerra. Giustamente, nell'ambito dei progetti per GO! 2025 (Nova Gorica / Gorizia capitale europea della cultura) sarà realizzata nel capoluogo isontino la grande mostra su “Ungaretti poeta e soldato. Il Carso e l'anima del mondo. Poesia pittura storia”, per omaggiare il grande poeta, volontario sul fronte carsico”.

Una figura dimenticata ai più, è sicuramente quella di Giovanni Randaccio, nato a Torino nel 1885.

Prese parte alla guerra di Libia, passò quindi nell’aviazione, ottenendo il brevetto di pilota e il primo giugno 1915, a Monte Sei Busi, sul Carso nei pressi di Monfalcone conseguì la prima medaglia d’argento “per l’arditezza dimostrata conducendo all’attacco, in una difficile situazione, la propria compagnia e gli uomini di un altro reparto rimasto senza ufficiale”.

 

Il 21 ottobre successivo, in una nuova battaglia sul Carso, ottenne la seconda medaglia d’argento.

Ma le gravi ferite riportate a seguito di scontri a fuoco, lo obbligarono ad abbandonare la guerra per alcuni mesi.

Rientrato al fronte. partecipò alla battaglia dell’11 e del 12 ottobre 1916 sul Veliki-Kribach,  in cima al quale piantò la bandiera affidatagli da Gabriele D’Annunzio.

 L’eroica condotta che egli tenette in guerra, gli valse la terza medaglia d’argento al valore e la promozione a maggiore per merito di guerra.

L’episodio che gli costa la vita avviene nel corso di una delle ultime operazioni della Decima battaglia dell’Isonzo, il 28 maggio 1917, alla periferia di Monfalcone, lungo la strada costiera verso Trieste nel minuscolo abitato di San Giovanni, alle foci del Timavo.

È questo lo sbarramento che ha frenato, dopo la conquista di Monfalcone del 9 giugno del 1915, ogni ulteriore avanzata italiana e ha reso la città dei cantieri il caposaldo logistico delle operazioni sul Carso.

Da due anni, dall’altra parte del fronte, gli austriaci resistevano saldamente sul massiccio dell’Ermada e sulla linea più arretrata dove avevano posizionato le loro trincee e le loro batterie. Il cammino verso Duino e Trieste è bloccato già dalla Quota 28, un modesto rilievo costiero coperto da un rado boschetto sulla sommità.

Un battaglione del 77° Reggimento, i “Lupi di Toscana”, si propone di attraversare il fiume su passerelle posizionate proprio sotto la Quota 28 e conquistarla. Un distaccamento avrebbe poi percorso i due chilometri di terreno basso e aperto fino al villaggio di Duino, arroccato sulle falesie, per issare l’enorme bandiera italiana con lo stemma Sabaudo sui contrafforti del castello. Il morale degli italiani della vicina Trieste si sarebbe sollevato nella visione del Tricolore, mentre quello degli austriaci sarebbe crollato.

Ma il terreno, sull’una e sull’altra riva del Timavo, è orribilmente paludoso, senza alberi che possano offrire copertura, tanto che appare un’impresa ardua, se non impossibile, quella di infiltrare abba-stanza soldati su una passerella, sotto il fuoco nemico, con sufficiente velocità da raggiungere l’obiettivo.

Alla predisposizione di questo piano lavora, con il solito ardimento, anche il capitano dei Lancieri di Novara Gabriele d’Annunzio. Aiutante del battaglione è il maggiore Randaccio.

Il diario del Poeta è denso di presagi funesti: il tempo è coperto e minaccia pioggia, gli uomini sono esausti “dopo ventiquattro giorni di sofferenze e combattimenti”.

Solo una delle passerelle previste viene sistemata: una serie di tavole larghe 40 centimetri, fissate a bidoni di olio vuoti, senza un cavo a cui aggrapparsi. Si parte in fila indiana verso la riva del fiume, il Poeta porta la bandiera. Un gruppetto di uomini riesce a percorrere la passerella sotto il fuoco nemico e alcuni soldati riescono a raggiungere la sommità della collina, senza però prenderne il controllo.

I mitraglieri austriaci, nascosti sul fianco della collina, aprono un fuoco d’infilata sulla riva del fiume e sulla passerella. Le mitragliatrici austriache fanno strage, colpendo a morte anche Randaccio.

D’Annunzio decide di usare la grande bandiera per avvolgere il corpo del maggiore, del cui sangue è in parte ancora intrisa, e di collocare in una croce il sangue raccolto sulle mostrine.

Nella magnifica orazione di Gabriele D’Annunzio al cimitero di Monfalcone davanti alla salma dell’eroe, descrisse così la figura di Randaccio: “In forma di atleta un’anima candida e fresca di adolescente; un coraggio leonino illuminato da un sorriso di fanciullo; sotto una gran forte pallida due occhi limpidi e leali che miravano il pericolo come a vent'anni si guarda l’amante.

Amato dal pericolo, egli era promesso alla morte.

Come Francesco aveva sposato la povertà, questo serafico della guerra aveva sposato la morte. [...] Ed anche nelle atroci sofferenze dell’agonia, anche nella morte, fu superbamente eroico. Il suo martirio atroce si svolse su una misera branda, fra altri feriti, in una bolgia di dolori”. “[...] Stava alla sua destra un mitragliere ferito nel polmone, da cui uscivano un gorgoglio e un sibilo alterni; alla sua sinistra, sopra un traversino, stava qualcosa come una zolla intrisa di sangue nero: una faccia interamente cancellata da una scheggia, dove il respiro strideva tuttavia tra i frantumi delle mascelle e le zacchere di mota. [...] Ora facciamo sgombrare la stanza; e tu rimarrai solo, sarai più tranquillo.”

Sulla stele di Aquileia dedicata a Randaccio è incisa la data di morte del Capitano, ovvero il 27 maggio del 1917.

Secondo la relazione dell’ufficio Storico dello Stato maggiore, l’agguato a Quota 28 sarebbe iniziato, invece, la notte del 28 maggio, e risulta raggiunta all’alba dell’indomani (il 29 maggio).

Questo coincide con il libro Caporetto di Angelo Gatti che data la morte di Randaccio il 29 maggio così anche Luccio Formisano in La battaglia del Timavo, scrive che “alle quattro del mattino, l’azione è fallita per cedimento della fanteria”.

Lo stesso scrive Enrico Morali nel suo libro In guerra con i Lupi di Toscana. La motivazione della medaglia d’oro concessa alla sua memoria, reca in calce la data 28 maggio 1917.

Ci sono quindi tre varianti sulla morte del Maggiore Giovanni Randaccio:

il 27 maggio, il 28 e il 29.

 

Didascalia delle foto:

1. Giovanni Bertacchi commemora Giuseppe Randaccio

2. Lettera di Giovanni Randaccio a Gabriele D’annunzio. L’autografo di questa lettera è sul

rovescio di una carta topografica.

 

3. Stele dedicata a Giovanni Randaccio.


NAZARIO SAURO

Nazario Sauro nasceva nel rione Bossedraga in Capodistria  il 20 settembre 1880 da Giacomo, piccolo imprenditore e armatore, di ascendenze romane e da Anna Depangher, che apparteneva a una delle famiglie di più antica ascendenza Capodistria, e che lo formò ed educò allo spirito patriottico italiano.

Figlio di marinai e di pescatori, conseguiva nel 1904 il diploma di Capitano marittimo di grande cabotaggio presso l’Istituto Nautico di Trieste.

Prendeva imbarco sul-le navi della Società «Austro-Americana» dei fratelli Cosulich e dell’ «Istria-Trieste» acquistando conoscenza dell’Adriatico fino negli angoli più riposti, lungo le coste istriane e della Dalmazia sino all’Albania.

Sposatosi a 21 anni con Nina Steffè, passava al servizio della Società di Navigazione Capodistriana facendo la spola tra Capodistria e Trieste al comando del piroscafo «San Giusto», che prenderà poi il suo nome, vicino ai figli Nino, Libero, Anita, Italo e Albania, avuti tra il 1901 e il 1914, che egli educava ai più alti ideali di amor patrio, di libertà e di dignità.

Aderente al gruppo repubblicano di Pio Riego Gambini, allo scoppio della Prima guerra mondiale lo troviamo impegnato a svolgere assidua opera a favore dell’Italia, del cui intervento non dubitava, raccogliendo informazioni riservate e viaggiando oltre confine fino a Venezia con la copertura di procurare carichi di farina. Abbandonava Capodistria il 2 settembre 1914 rifugiandosi a Venezia dove prestava la sua opera nei comitati di raccolta e di assistenza ai fuorusciti, che incoraggiava con il suo entusiasmo, accorrendo tra i primi in aiuto ai terremotati della Marsica.

Alla dichiarazione di guerra poteva finalmente arruolarsi volontario nella Marina Militare. Veniva assegnato col grado di Tenente di Vascello alla R.N. «Emanuele Filiberto» di guardia agli Alberoni, sotto il Comando Difesa di Grado, con l’incarico ufficiale di concorrere alla difesa della laguna di Grado, in realtà con il segreto compito di partecipare, quale pilota di siluranti di superficie e sommergibili, a rischiose incursioni lungo le coste nemiche che conosceva perfettamente.

La prima azione d’assalto fu compiuta da Nazario Sauro il 7 dicembre 1915.

In quel giorno le torpediniere costiere 2 PN, 3 PN, 6 PN e 30 AS al comando del Capitano di Corvetta Marco Amici-Grossi, affiancato come pilota da Nazario Sauro, partirono da Grado e fecero rotta su Duino.

Le torpediniere italiane, arrivate davanti a Sistiana, invertirono la rotta e retrocedendo verso il porticciolo, aprirono il fuoco contro l’Hotel Park, sede di un comando dell’Esercito austro-ungarico, e contro alcune imbarcazioni ormeggiate nel porto destinate al dragaggio.

Dopo aver sparato ben 120 colpi si ritirarono sotto il fuoco delle batterie costiere, avendo un solo ferito lieve a bordo. Nei mesi successivi, Sauro effettuò molte missioni esplorative lungo le coste istriane per vigilare sull’attività di posa di campi minati e per testare le capacità di scoperta del nemico, finché, alla fine del mese di maggio violò il porto di Trieste, aprendo la lunga serie di violazione dei porti nemici da parte della Marina .

In quattordici mesi di intensa e continua attività il Tenente di Vascello Nazario Sauro portava a termine sessanta missioni di guerra.

Tra le più note: la cattura del piroscafo «Timavo», internato nell’ Isonzato presso l’Isola Morosini, l’incursione nel golfo di Panzano con il Ct «Bersagliere», l’incursione nel porto di Trieste con la torpediniera 24 OS, l’azione contro la stazione degli idrovolanti di Parenzo con il Ct «Zeffiro», che egli portava arditamente all’ormeggio nel porto catturando un gendarme austriaco, l’incursione nel porto di Pirano, che gli procuravano encomi solenni e la MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE, con la seguente motivazione:

«Prese parte a numerose ardite difficili missioni navali di guerra, alla cui riuscita contribuì efficace-mente, dimostrando sempre coraggio, animo intrepido e disprezzo dei pericoli e rendendo in tal modo preziosi servizi alia condotta delle operazioni navali. 23 maggio 1915 - 23 maggio 1916».

Il forzamento del porto di Trieste.

Nel pomeriggio del 28 maggio 1916 giungeva a Grado, proveniente da Venezia, la Torpediniera 24 OS al comando del tenente di vascello Manfredi Gravina , per imbarcare Nazario Sauro.

A mezzanotte la torpediniera salpò alla volta di Trieste, scortata da una squadriglia di torpediniere e di cacciatorpediniere, mentre a Grado rimaneva una squadriglia di siluranti pronta a muovere in caso di uscita del nemico da Pola.

La notte scura e piovigginosa, se da una parte era propizia alla sorpresa, dall’altra non era favorevole all’orientamento; ma la grande abilità e coraggio del comandante e del pilota, fecero sì che la piccola torpediniera riuscisse a penetrare nel porto e potesse dirigersi verso la banchina dove erano ormeggiate navi da carico.

Nella più completa oscurità i nostri individuarono una massa scura sormontata da una alberatura e in quella direzione lanciarono due siluri che andarono a segno.

L’esplosione dei siluri diede l’allarme e poco dopo entrarono in azione i cannoni, ma la 24 OS  fece in tempo a invertire la rotta e allontanarsi dirigendo su Grado, dove rientrava alle ore 03.40 del mattino.

I siluri però avevano colpito il Molo con il deposito di carbone delle siluranti che crollò e si incendiò e non la nave avvistata che era un grande piroscafo tedesco ormeggiato al Molo Giuseppina.

In ogni caso, nonostante i danni subiti dagli austro ungarici fossero stati modesti, grandi furono invece i benefici sul morale degli italiani .

Incursione nel porto di Parenzo.

Azione leggendaria, si rivelò una vera e propria beffa contro gli austriaci.

La missione, voluta dall’ammiraglio Thaon di Revel, aveva lo scopo di distruggere gli hangar della stazione idrovolanti di Parenzo da cui, nella seconda metà di maggio, erano partiti i velivoli austriaci che avevano attaccato le città italiane del nord Adriatico.

All’alba del 12 giugno 1916 il cacciatorpediniere «Zeffiro» penetrò nel porto di Parenzo per individuare la posizione del bersaglio stabilito che, però, non venne subito riconosciuto in quanto abilmente mascherato.

La missione sarebbe fallita - ricorda il capi-tano di vascello Pignatti Morano, comandante del gruppo navale - ma giudicai, prima di ritirarci, che si dovesse approfittare della mancanza di qualsiasi allarme...per fare una corsa all’interno del porto ed accertare se in qualche altra località, nascosta alla visione dal largo, potesse esservi l’hangar. Mentre si stava per uscire dal porto comparvero sul molo della Sanità tre soldati che osservavano la manovra delle torpediniere con curiosità, ma evidentemente senza alcuna preoccupazione. Il signor Sauro lanciò l’idea di accostare alla banchina e di cercare di prenderli e così avere delle informazioni».

 Approfittando dell’“effetto sorpresa”, Sauro, a prora del mezzo, chiese ai tre soldati, in dialetto veneto-istriano, aiuto ad ormeggiare l’unità che essi non avevano evidentemente riconosciuta come italiana. Appena possibile, Sauro saltò sulla banchina con altri marinai e, nella colluttazione, riuscirono a farne uno prigioniero. Scattato l’allarme, lo Zeffiro uscì dal porto e si appostò e, grazie alle indicazioni ricevute dal prigioniero, fu bombardato l’hangar [8].

Forzamento del porto Pirano. Nel pomeriggio del 25 giugno la Torpediniera 19 OS, al comando del Capitano di Corvetta Gustavo Bogetti [9] e pilotata da Nazario Sauro, insieme alle torpediniere 20 O.S. e 21 O.S. lasciò Grado con l’obiettivo di catturare il piroscafo armato «Narenzio» che si trovava ormeggia-to nel porticciolo di Pirano.

La bocca del porto, larga solo 25 metri, e la completa oscurità della prima notte, rendevano assai difficile la manovra, ma l’abilità di Sauro e la determinazione del comandante Bogetti consentirono il compimento della manovra. Mentre la Torpediniera 20 OS e la Torpediniera 21 OS rimanevano al largo, la Torpediniera 19 OS, entrava abilmente nel porto e andava ad ormeggiarsi al molo di poppa al «Narenzio».

A mezzanotte, però, proprio mentre i nostri marinai stavano per sbarcare per prendere a rimorchio il piroscafo, risuonò l’allarme. Al violento fuoco di armi leggere e di cannoni, si unirono le batterie di Punta Madonna e di Capo Salvore.

La Torpediniera 19 OS, vistasi scoperta, non poté far altro che mollare gli ormeggi e uscire velocemente dal porto mentre apriva il fuoco col suo pezzo, aiutata dalle altre due torpediniere. Tutte e tre le unità rientrarono alla base indenni.

L’ultima missione.

In qualità di pilota usciva più volte anche con i sommergibili; con lo «Jalea», comandato da Ernesto Giovannini , con l’«Atropo», con il «Giacinto Pullino», inviato nel golfo di Fiume all’attacco dei piroscafi alla fonda in quel porto.

La seconda e ultima incursione con il «Giacinto Pulli-no» al comando del Tenente di Vascello Ubaldo degli Uberti riusciva fatale. Nella notte tra il 30 e il 31 luglio 1916 il sommergibile era diretto nel Quarnaro in crociera di guerra quando si incaglio sullo scoglio della Gigliola. Risultati inutili gli sforzi dell’equipaggio per disincagliare il battello, gli uomini dell’equipaggio requisirono un barcone a vela dei guardiani del faro e cercarono di rientrare in Italia ma furono catturati da due torpediniere sopraggiunte.

Anche Nazario Sauro, che aveva cercato di allontanarsi per proprio conto su un battellino, fu catturato. Il fatto non ha mancato di sollevare, a suo tempo, interrogativi e polemiche e qualcuno ha parlato anche di imperizia.

Bisogna considerare che quella zona di mare a è soggetta a forti e irregolari correnti e che al momento dell’incaglio un piovasco aveva ridotto la visibilità a zero.

Nella precedente incursione il «Pullino» aveva seguito la rotta di settentrione correndo il rischio di finire sul campo minato difensivo della piazzaforte di Pola per cui è spiegabile la scelta della rotta meridionale.

Risultato vano ogni tentativo di disincaglio, l’equipaggio abbandonava l’unità cercando di tornare indietro con una barca requisita agli allibiti guardiani del faro.

L’errore Nazario Sauro lo fece, forse, in questo momento staccandosi dai compagni per guadagnare la costa italiana da solo destando così i primi sospetti.

Deferito al tribunale militare di guerra della Marina austriaca di Pola (dove dichiarò la falsa identità di Nicola Sambo), sottoposto a interrogatori, dibattimenti, confronti e riconoscimenti (tra i quali quello dei con-cittadini Giovanni Riccobon, Giovanni Schiavon e quello decisivo di suo cognato Luigi Steffè, maresciallo della Guar­dia di Finanza austriaca).

 Infine, il confronto drammatico con la madre che, pur di salvarlo dalla forca, negò di conoscerlo. Alla fine, riconosciuto, processato e condannato a morte per alto tradimento, veniva impiccato la sera del 10 agosto 1916 nel cortile delle carceri militari.

Mentre il cappio già gli stringeva la gola, Nazario Sauro trovava la forza di gridare, secondo la tradizione del Risorgimento, «Morte all’Austria! Viva l’Italia

Nel testamento spirituale raccomandava alla moglie di ricordare sempre ai figli che egli era stato prima italiano, poi padre, poi cittadino.

Conferita la MEDAGLIA DORO AL VALOR MILITARE, ALLA MEMORIA, con la seguente motivazione: «Dichiarata la guerra all’Austria, venne subito ad arruolarsi volontario sotto la nostra bandiera per dare il contributo del suo entusiasmo, della sua audacia e abilità alla conquista della terra sulla quale era nato e che anelava ricongiungersi all’Italia.

Incurante del rischio al quale si esponeva, prese parte a numerose, ardite e difficili missioni navali di guerra, alla cui riuscita contribuì efficacemente con la conoscenza pratica dei luoghi e dimostrando sempre coraggio, animo intrepido e disprezzo del pericolo.

Fatto prigioniero, conscio della sorte che ormai lo attendeva, serbò, fino all’ultimo, contegno meravigliosamente sereno e col grido forte e ripetuto più volte dinanzi al carnefice di “Viva l’Italia” esalò l’a-nima nobilissima, dando impareggiabile esempio del più puro amor di Patria

 

Alto Adriatico, 23 maggio 1915 - 10 agosto 1916 

Vittorio Giovanni Rossi ha scritto che Nazario Sauro va posto nella schiera di coloro, che nella guerra hanno messo di più degli altri italiani: la possibilità di due morti.

Quella gloriosa, considerata tale anche dal nemico, e l’altra, dal nemico considerata ignominiosa: non la morte del soldato ma la morte del traditore, pesante, fredda, tetra e solitaria perché quelli che stanno intorno non sono amici ma giudici e carnefici.

 

Non tutti sanno che Nazario Sauro è stato impiccato due volte.

Nel 1952, le statue del monumento nazionale, smontato dai Tedeschi durante la guerra e riparate nell’atrio del Civico Museo, pregevole opera dello scultore Attilio Selva, venivano fatte a pezzi.

La effigie di Sauro veniva appesa per il collo e lasciata ostentatamente così per qualche giornata prima di seguire la sorte delle altre statue, gesto odioso e rivelatore del vero animo degli occupanti.

Dal 9 marzo del 1947, dopo alterne vicende, le spoglie mortali dell’Eroe riposano nel Tempio votivo del Lido di Venezia.


ULRICO TONTI

Medaglia d’Oro al Valor Militare -Nord di Meglanci (Macedonia), 9 maggio 1917-

Ulrico Tonti nacque a Forlì del Sannio, nel circondario di Isernia 

 

il 23 gennaio 1877 da Filippo e da Teresina Capolozza. 

Il padre, legale, ardente di fede patriottica, prestò il suo braccio per l’Unità e l’Indipendenza nazionale, militando e distinguendosi anche nelle file Garibaldine, ed educò i figli al culto della Religione e della Patria.

Ulrico percorse brillantemente gli studi classici conseguendo la licenza liceale nell'Istituto “Vittorio Emanuele” di Napoli nel 1896. Si

avviò, quindi, agli studi di giurisprudenza.

Per motivi di famiglia, il 21 ottobre 1896, entrò volontario alla Scuola Militare di Modena, (3) uscendone, due anni dopo, il 19 ottobre

1898, Sottotenente di Fanteria, assegnato al 17° Reggimento Fanteria.

L’11 dicembre successivo, in Udine, prestava giuramento di fedeltà. 

Fu promosso Tenente il 18 gennaio 1903 e Capitano, nel 93° Reggimento Fanteria “Messina”, il 3 aprile 1913. Il 7 ottobre 1908, sposava Matilde Vendittelli. Inviato in servizio in Tripolitania dall’agosto 1913 all’ottobre 1914, all’atto del rimpatrio, trasferito al 79° Fanteria, attese all'Ufficio di Ufficiale Istruttore Aggiunto presso il Tribunale Militare di Verona.

 

Il 22 maggio 1915, alla dichiarazione di guerra all’Austria, passò a formare i quadri del 113° Reggimento della Brigata “Mantova” raggiungendo con il Reggimento la Val Lagarina, per prendere parte alle operazioni svoltesi nel settore. Inviato sull'Altipiano di Asiago per arginare l’offensiva austriaca nel Trentino partecipò nel giugno 1916 alla controffensiva nel cosiddetto settore di destra Adige. Trasferito poi al 61° Reggimento Fanteria della Brigata “Sicilia”, fu designato a far parte del Corpo di Spedizione italiano in Macedonia, e l’8 agosto, al Comando del III Battaglione si imbarcò con il reggimento a Taranto diretto a Salonicco, dove il 31 agosto 1916, riceveva la promozione a Maggiore.

 

Dall'ottobre prese parte ai combattimenti nel settore della Cerna ed in particolar modo a quelli sulla quota 1050, in terreno aspro e difficile, privo di adeguate difese e fortemente presidiato dal nemico. (5)

Alla ripresa dell’offensiva su tutto il fronte, ai primi di maggio del 1917, fu incaricato di assumere il comando di una colonna speciale, composta dai Battaglioni I e III del Reggimento, per procedere allaconquista delle alture di Meglanci.

Preparato l’attacco in tutti i suoi particolari ed animati i suoi uomini alla non facile impresa, in testa a tutti, il mattino del 9 maggio, Tonti si slanciò all'attacco delle posizioni nemiche. In breve, queste furono raggiunte e conquistate. Ma al valoroso Maggiore non bastava, a breve distanza si stendevano le seconde linee nemiche e dal tergo di essere alcuni cannoni, battevano le nostre linee.

 

Costituita, quindi, con pronta e diligente iniziativa, una leggera colonna di due sole compagnie, proseguì l’attacco contro le seconde linee, e trascinando con il suo entusiasmo gli uomini alla vittoria, cadde colpito a morte da mitragliatrice sulle trincee conquistate. Fino all’ultimo momento, noncurante di sé, esortava i suoi uomini a compiere l’azione così brillantemente iniziata. 

Per eternare la memoria del Magg. Ulrico Tonti, valoroso e fratello di un valoroso,  conferita,

 

con R.D. 7 settembre 1919, la MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE, con la seguente luminosa motivazione:

 

«In aspro combattimento, preparava una colonna d’assalto di forza superiore alle competenze del suo grado con ammirevole calma e grande riflessività, infondendo fiducia in tutti e, alla testa di essa,percorrendo terreno scoperto e sconvolto dal violento tiro nemico, con meraviglioso slancio e magnifica opera personale brillantemente occupava gli obiettivi assegnatigli.

Si poneva poi, di sua iniziativa, alla testa di una ulteriore ondata d’assalto formata di due sole compagnie, per la conquista delle seconde linee e delle artiglierie nemiche, dando fulgida prova di coraggio e, nel momento in cui raggiungeva lo scopo, rimasto colpito a morte, noncurante di sé, continuava ancora ad incitare i suoi uomini fin quando cadde esanime.

 

Eroico esempio di suprema virtù militare». (8)

Nord di Meglanci (Macedonia), 9 maggio 1917. (9)

Il corpo del Maggiore Ulrico Tonti fu sepolto nel cimitero militare italiano di Salonicco in Grecia, ove tuttora riposa. Il 5 dicembre 1935, Matilde Vendittelli, Vedova Tonti, donava la Medaglia d’Oro alla Patria. (10)

Nella città natale una via porta il suo nome.

 

Vincenzo Gaglione


STORIA. L’EROICO CAPITANO CHE SALVÒ I DISPERSI IN SIBERIA

Il campano Andrea Compatangelo, emigrato nella Russia sconvolta dalla guerra civile, fra il 1918 e il 1920 con il Battaglione “Savoia” riuscì a riportare al sicuro italiani e prigionieri austroungarici Questa storia sembra un romanzo. C’è chi sostiene che abbia addirittura ispirato una scena de Il dottor Zivago.

Gli ingredienti ci sono tutti: un italiano trasferito nell'immensa Russia sconvolta dalla sanguinosa guerra civile che libera i suoi connazionali dai campi di concentramento e li riunisce in un Battaglione.

Il suo Battaglione, un esercito privato con cui combatte i bolscevichi, mentre percorre la Transiberiana verso Oriente.

Sembra un romanzo, sì. Ma non lo è. È una storia vera. È la storia del ragioniere beneventano Andrea Compatangelo, auto nominatosi capitano del “suo” Battaglione “Savoia”. Ad oltre cento anni di distanza da quei fatti, la sua figura eccentrica e quella della sua singolare unità militare è ancora poco conosciuta.

Forse perché, come dice Claudio Magris, «chi ha vissuto vicende straordinarie tende a tacere,perché pensa che, a parlarne, le si falsificherebbe ».

Per comprendere la storia che andremo a raccontare, serve una contestualizzazione. «Infatti - come spiega Alberto Caminiti nel suo Gli irredenti di Siberia, 1918-1920 (Libero di scrivere, pagine 180) -, solo in uno sterminato Stato come la Russia, completamente nel caos di una guerra civile, si rese possibile la costituzione di un esercito privato. Mentre l’Armata Rossa avanzava, oltre alle Armate bianche fedeli alla monarchia, le potenze dell’intesa finanziarono contingenti antirivoluzionari armando i prigionieri deportati nei campi di concentramento. In quel periodo, nel vuoto d’autorità esistente, era facile procurarsi divise e armi».

A testimonianza di questa situazione, basta ricordare un passo de La caduta dei giganti di Ken Follett, quando Trockij dice: «Ma questo Paese è pieno di forze straniere! Si fa prima a dire chi non c’è!».

Ora, un altro punto: all'inizio della Prima guerra mondiale, nell'esercito asburgico prestavano servizio trentini, giuliani, istriani e dalmati. Soldati che furono impiegati sul fronte russo, dove 10 mila di loro finirono nei campi di concentramento. Di questa situazione fu informato lo Stato italiano, che a sua volta istituì una Missione Militare che riuscì a rintracciare migliaia di questi prigionieri di etnia italiana.

Di questi, il 24 settembre 1916, 1.700 furono imbarcati per l’Italia. Altri 1.700 partirono poche settimane dopo.

Poi, l’inverno artico bloccò tutto. Eppure erano pronti a salpare altri tremila prigionieri.

Qui entra in scena il maggiore dei carabinieri Cosma Manera. Parla a quegli uomini stanchi e li addestra. Con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, la Russia cade nella completa anarchia, quindi, per riportarli a casa l’unica via è a Oriente.

Dovranno raggiungere Vladivostock, dove potranno imbarcarsi. Ma per farlo devono percorrere 8.000 km di Transiberiana. E così, Manera inizia a far partire, a piccoli gruppi, i suoi nuovi connazionali. Intanto, a Samara, nella regione del Volga (in mano ai cecoslovacchi della legione antirivoluzionaria), il ragioniere Andrea Compatangelo, proprietario di una ditta di import- export e collaboratore del quotidiano “Avanti!”, dopo aver aiutato i prigionieri italiani con viveri e soldi, in breve  arruolò ottanta irredenti nel suo Battaglione Savoia costituito nell’agosto 1918.

L’11 settembre con un «accordo per la costituzione di un battaglione italiano nell'ambito dell’Esercito della Repubblica Ceca in Russia» si stabiliva una prima fornitura di armi, denaro e vettovagliamento da parte dello stato ceco.

Gli uomini del Savoia iniziano con lo svolgere attività di polizia, salvando, anche, la vita a due militari francesi. Pochi giorni e la città è assediata dai bolscevichi. E mentre, come scriveva il tenente triestino Mario Gressan (aiutante di campo di Compatangelo), «cadeva la speranza di vedere giungere in tempo le truppe alleate » rimangono gli italiani a resistere sotto il bombardamento dell’artiglieria.

Quindi, come ha sottolineato Giorgio Petracchi, «il Battaglione fu la prima unità che combatté contro l’Armata Rossa». (...)

 

Nazareno Giusti - Avvenire


EDMONDO MAZZUOLI

 

Soldato nel 31° Reggimento di Fanteria della Brigata “Siena”

 

MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE

«Con mirabile ardimento, per ben sei volte, nello spazio di pochi giorni, fece volontariamente parte di pattuglie incaricate della distruzione dei reticolati dinanzi alle trincee nemiche.

 

Iniziatasi l’azione contro queste, fu il primo fra tutti a slanciarsi all'assalto. Ferito al braccio, continuò ad avanzare, incitando i compagni e gridando loro:

 

Sono ferito, ma avanti lo stesso, avanti contro gli Austriaci!

Cadde colpito a morte, mentre stava per scavalcare la trincea avversaria.

Sagrado-Monfalcone, 21 ottobre 1915». [1]

Con questo conferimento si volle eternare la memoria del Soldato Edmondo Mazzuoli, eroicamente caduto durante i combattimenti della Terza Battaglia dell’Isonzo. Edmondo Mazzuoli era nato a Bologna il 28 febbraio 1889, da Ettore e da Armida Franzini.

[2] Esonerato dal servizio militare di leva in seguito a riforma, aveva trovato impiego come magazziniere in un albergo di Firenze,

In questa città, non avendo gradito il giudizio di riforma e volendo provare a sé stesso d’essere valido, prese a svolgere attività ginnico-

sportive. [3] Correva come podista per una locale Società d’atletica (l’“Itala”). [4]

 

Quando l’Italia, il 24 maggio 1915, entrò nella Grande Guerra, lasciò subito l’impiego per arruolarsi volontario. [5] Assegnato alla 12a 

Compagnia del III Battaglione al 31o Reggimento Fanteria della Brigata Siena, raggiunse il reparto nella zona di operazioni: sulla linea del fronte tra San Pietro dell’Isonzo e la rotabile di Ronchi, qui, prese parte ai combattimenti della Prima Battaglia dell’Isonzo dove, tra il 23 giugno e il 7 luglio 1915, la Brigata perse quasi 1500 uomini, tra morti, feriti e dispersi.

 

Anche in seguito, alla vigilia della Terza Battaglia dell’Isonzo, mentre il Reggimento era schierato in prima linea nel settore fra San Martino del Carso e Castelnuovo, alle dipendenze della 19a Divisione, si mise in evidenza per l’audacia e lo sprezzo del pericolo dimostrati durante la Seconda Battaglia dell’Isonzo,nei combattimenti sviluppatisi per la conquista di Castelnuovo, dal 18 luglio al 3 agosto, nella quale la Brigata Siena riuscì a conquistare alcune posizioni nemiche, che permisero di stabilizzare il fronte.

 

Durante la guerra di trincea, il Mazzuoli, riuscì a dimostrare tutto il suo valore, spesso offrendosi volontario per missioni sotto le linee nemiche, per pattuglie in territorio neutro e ricognizioni. [6]

 

Dall’agosto, nuovi scontri non vi furono, se non piccole azioni di disturbo, atte a saggiare la forza dei due schieramenti: l’iniziativa venne ripresa a ottobre, quando il Generale Luigi Cadorna diede avvio alla Terza Battaglia dell’Isonzo, che avrebbe dovuto portare alla conquista di Gorizia, delle cime del San Michele e del Podgora ed occupare la zona di Vipacco. [7]

 

Nella notte del 16 ottobre 1915, i primi tentativi per il brillamento di tubi esplosivi sotto i reticolati nemici furono affidati a volontari che si portarono arditamente presso le trincee e, come già in precedenza, fra essi si segnalò il Fante Mazzuoli il quale, per ben sei volte si offrì per compiere gli audaci tentativi.

 

 

Agenzia Stampa

Poi, il 18 ottobre, partì l’attacco iniziale della Terza Battaglia dell’Isonzo. Più di 1.300 cannoni iniziarono a bombardare le linee austroungariche su un fronte di 50 km dalle Prealpi Giulie a Monfalcone. Per tre giorni i Fanti della Brigata Siena assaltarono le trincee austriache, al costo di gravi perdite. Mazzuoli era sempre lì, nel mezzo dei combattimenti, correndo contro i reticolati avversari. Nella notte sul 19 ottobre, essendo rimasti feriti due suoi compagni di pattuglia presso i reticolati nemici, con alto spirito umanitario li portò in

salvo e ritornò subito al suo posto di combattimento.

La sera del 20, sebbene febbricitante, si portò audacemente sotto i reticolati per aprirvi dei varchi e il giorno 21, allorché il Reggimento mosse all'assalto della c.d. trincea “delle frasche”, Mazzoli si offriva ancora di far parte di una delle pattuglie di volontari e fu uno dei primi a lanciarsi contro le posizioni nemiche. Ferito da pallottola di fucile ad un braccio, dopo sommaria medicazione riprese la lotta con maggiore slancio, incoraggiando gli altri e conducendoli avanti fra i reticolati, là dove essi sembravano più vulnerabili. Nel momento, però, in cui stava per penetrare negli apprestamenti avversari, cadde colpito a morte, continuando ad incitare, con l’ultimo esile filo di voce, i propri compagni alla lotta. [8]

Il 23 ottobre dopo tre giorni di battaglia la Brigata Siena riuscì ad impossessarsi dell’importante linea fortificata del monte. Stremata la formazione venne sostituita da un Reggimento di Bersaglieri e dalla Brigata Sassari, le quali riuscirono a resistere al contrattacco nemico sospeso il 4 novembre. La Terza Battaglia dell’Isonzo ebbe fine, infatti, il 4 novembre, senza che non vi fossero grandi mutamenti sull’in-

tero fronte: il numero dei caduti assunse i caratteri di una tragedia: in dieci giorni le perdite furono di 6- 7.000 uomini, di cui 11.000 morti, interi reggimenti di fanteria furono quasi completamente decimati, perdendo anche la metà degli effettivi (la Catanzaro sul Monte San Michele perse quasi 3.000 soldati).

Stessa situazione sul Monte Calvario sul Sabotino e sulla quota 121 di Monfalcone dove tutti i tentativi di conquistare le trincee austroungariche fallirono. L’unico piccolo risultato anche a costo di grandi perdite fu la conquista delle trincee sul Monte Sei Busi. [9]

 

Con Decreto Luogotenenziale del 15 settembre 1916 alla memoria di Edmondo Mazzuoli, Soldato nel 31° Reggimento di Fanteria della Brigata “Siena”, mirabile osatore e superbo maestro di Eroi, fu decretata la MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE.

 

[10]

 

Per onorarne il ricordo il comune di Sagrado gli ha intitolato una via nella frazione Poggio Terza Armata. In Firenze, il suo nome è impresso su un cippo nell’area del Parco della Rimembranza. [11]

 

Vincenzo Gaglione

 

NOTE

 

1) Decreto Luogotenenziale del 15 settembre 1916. Barone Errardo di Aichelburg (Colonnello dei Bersaglieri), Medaglie d’Oro, Volume Secondo -Toscana-Lazio- 1923, Bergamo, p. 203.

 

2) G. Carolei, G. Greganti, G. Modica, Le Medaglie d’Oro al Valore Militare dal 1915 al 1916, (a cura di),

in Gruppo Medaglie d’Oro al Valore Militare d’Italia, Tipografia Regionale, 1968, Roma, p. 86.

3) Barone Errardo di Aichelburg (Colonnello dei Bersaglieri), cit.

4) Mario Canella e Sergio Giuntini, Sport e fascismo, Franco Angeli Editore, 2009, Milano, p. 506.

 

 

5) G. Carolei, G. Greganti, G. Modica, cit.

6) Ivi.

7) Cadorna decise di cambiare la sua tattica e scelse di puntare verso la città di Gorizia, abbandonando momentaneamente la

spinta su Trieste. La città isontina soprannominata la “Nizza dell’Adriatico” negli ultimi decenni del XIX sec. sembrava un

obiettivo alla portata dell’esercito italiano: se l’avanzata fosse proseguita a nord in direzione di Tolmino e a sud sul Monte San

Michele, Gorizia sarebbe stata circondata e le truppe ungheresi e dalmate che si trovavano in città non avrebbero potuto far

 

altro che arrendersi. I primi assalti sul Monte Mzli e sul San Michele furono positivi ma dopo poche ore i durissimi contrattac-

chi costrinsero i soldati italiani a retrocedere alle posizioni di partenza.

 

8) G. Carolei, G. Greganti, G. Modica, cit.

9) La Brigata Siena, da sola, subì circa duemila perdite, tra le quali 53 furono ufficiali.

10) https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/12378

11) In Firenze, una lapide ricorda la dedicazione dell’area del Parco della Rimembranza ai Caduti della Grande Guerra. Alla base

 

di 10 cipressi piantati un secolo fa (oggi potrebbero simbolicamente rappresentare le 10 province della Toscana), ci sono al-

trettanti cippi con il nome di un decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare, caduto in guerra. Otto di loro sono originari di

 

Firenze. Mazzuoli è uno dei due non originari di Firenze. https://www.osservatorelibero.it/2023/04/23/firenze/

 

L’immagine del Decorato e la cartolina commemorativa provengono dall’Archivio del Gruppo MOVM d’Italia.

Alcune letture per approfondimenti sulle vicende della Prima guerra mondiale:

- Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana, Voll. 1° e 2°, Fratelli Treves editori, 1921, Milano.

- Alberto Cavaciocchi e Andrea Ungari, Gli italiani in guerra, Ugo Mursia Editore, 2014, Milano.

- Massimo Coltrinari, Riflessioni sulla Grande Guerra, 2 Volumi, Nuova Cultura, 2022, Roma.

- Massimo Coltrinari e Giancarlo Ramaccia, 1914. L’anno fatale. L’alterazione degli equilibri europei e l’esclusione dell’Italia.

Glossario, Edizioni Nuova Cultura, 2022, Roma; Id., 1915, L’anno della passione. Dalla neutralità all’intervento, Nuova Cultura,

2018, Roma; Id., 1916. L’anno d’angoscia: Dalla spedizione punitiva alla presa di Gorizia. Le “spallate” sull’Isonzo, Edizioni

Nuova Cultura, 2018, Roma; Id., 1917, L’anno terribile. Dalla Bainsizza alla sorpresa strategica di Caporetto, Nuova Cultura,

2018, Roma; Id., 1918. L’anno della gloria: Dalla battaglia d’arresto, alla battaglia del solstizio, alla vittoria, Edizioni Nuova

Cultura, 2018, Roma.

- Emilio Faldella, La grande guerra. Le battaglie dell’Isonzo 1915-1917, Volume Primo, Longonesi & C., 1965, Milano; Id., La

grande guerra. Da caporetto al Piave 1917-1918, Volume Secondo, Longonesi & C., 1965, Milano; Id., Caporetto le vere cause di

una tragedia, Cappelli, 1967, Bologna.

- Antonio Gibelli, La grande guerra degli Italiani 1915-1918, Rizzoli, 2014, Milano.

- Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, 2010 [1994], Milano.

- David Stevenson, La grande guerra - una storia globale, Rizzoli, 2004, Milano.

- Hew Strachan, La prima guerra mondiale, una storia illustrata, Mondadori, 2009, Milano.

- Hewdley Paul Willmott, La prima guerra mondiale, Mondadori, 2006, Milano.


Il Palazzo in cui ha sede il Museo è conosciuto, soprattutto come casa di Pietro Bembo. Il Prof. Oliviero Ronchi, in un suo prezioso libretto, racconta che nel 1750 Charles Cochin, incisore prediletto di Luigi XV e precettore di Francesco de Poisson, fratello di Madame Pompadour, dopo aver visitato Padova, citò il palazzo nelle sue memorie con viva ammirazione. In effetti la costruzione risale al 1400, allorché nacque come “Casa Bon Romeo”, e nel 1512 fu proprietà di Bernardo Fortebraccio, condottiero della Serenissima.

Il Bembo si interessò a questo palazzo fin dal 1522 e riuscì a comperarlo nel 1527 facendolo divenire centro di cultura e ritrovo dei migliori ingegni padovani. Morto il Bembo nel 1547, il palazzo passò come dote alla figlia, la quale sposò un Grandenigo.

Nel 1815 furono proprietari i Farsetti e nel 1847 il palazzo fu acquistato dal Duca Silvestro Camerini, con il cui nome è tuttora conosciuto il palazzo.

Nel 1952 vi prese sede il Comando operativo designato della 3^ Armata, omonimo della celebre 3^ Armata del 1915 - 18, che visse per 20 anni e fu sciolto poi nel 1972; in quell'anno subentrò il Comando dell'Artiglieria Controaerei dell’Esercito, tuttora presente, che ha il compito di gestire il Museo della 3^ Armata.


CONTE LUIGI FEDERICO MENABREA

 

MARCHESE DI VAL DORA

Luminare ed eroico difensore dell’Unità e Indipendenza 


Caduta Capua, il Comando Superiore del Genio agli ordini Menabrea raggiunge la città di Gaeta, dove il 13 novembre 1860 dà inizio all’assedio.

Menabrea con 13 compagnie del genio, riunite nel 1° e nel 2° Reggimento (per un totale di 50 ufficiale e 1.700 generi) costruisce in soli tre mesi cinque batterie campali in quota, 22 km di strade, comprese le opere e accessori (ponti, piazzale, acquedotti, canale di sco-lo) più di 200 manufatti, 2 km di trincee e camminamenti protetti.

Le cinque batterie in quota sono armate con 6-8 mortai/obici/cannoni rigati “Modello Cavalli” e proietto oblungo scoppiante calibro 33/22/40 cm con caricamento dalla culatta. Inoltre, trasforma le Pirocannoniere “Confienza” e “Curtatone” in “Brulotti Minatori”, ossia battelli esplosivi, veri e propri precursori dei mezzi d’assalto della Marina da guerra italiana. 

 

Si giunge alla resa della piazzaforte dopo solo 3 mesi, invece di calcolati due anni dai Borboni perché il generale Menabrea sapeva che le mura perimetrali avevano spessore di 4-6 metri, mentre i solai erano in legno e quin-di facilmente vulnerabili. Da qui la decisione di portare cinque batterie in quota in modo di colpire dall’alto i solai di legno coinvolgendo le polveriere sottostanti. Il 5 febbraio salta in aria una prima grande polveriera con 7 tonnellate di polvere e 4000 cartucce. Il 13 febbraio salta in aria la “Batteria Transilva-nia” con 18 tonnellate di polvere. Muore il generale borbonico Duca Giuseppe Traversa, animatore della difesa. Nella stessa data la piazza capitola. (

Al generale Menabrea sono conferiti la GRAN CROCE DEL-L’ORDINE MILITARE DI SAVOIA e il titolo ereditario di Conte.  Terminato l’assedio di Gaeta Menabrea istituisce il servizio telegrafico militare prima affidata al personale civile di volta in volta militarizzato.

Allo scoppio della Terza guerra d’indipendenza (1866) Menabrea viene nominato Comandante Superiore del Genio mobilitato. A guerra ultimata fu delegato a sottoscrivere, il 3 ottobre 1866, il Trattato di Pace fra l’Italia e l’Impero austro-ungarico, quel trattato di pace che tre giorni dopo Vittorio Emanuele II ratificò a Torino. Egli già il 23 agosto precedente era stato delegato a rappresentare l’Italia a Praga per presen-ziare alla sottoscrizione del Trattato di pace fra la Prussia e l’Austria. Dal 1867 al 1871, il Menabrea fu di nuovo Presidente del Comitato del Genio e dal 21 dicembre 1869 al 30 novembre 1876 resse la Presiden-za del Comitato d’Artiglieria e Genio.

Il 30 novembre 1876 «esonerato dalla carica di Presidenza del Comitato d’Artiglieria e Genio, [fu] posto a disposizione del Ministero degli Affari Esteri conservando nell’Esercito il grado di cui è rivestito a l’attuale anzianità [...] dal 1° dicembre 1976». 

Come Deputato, prima, e Senatore, poi, Menabrea non si interessa solo di questioni militari.

Nominato Ministro dei lavori pubblici, nel 1858, fa approvare il progetto del traforo alpino del Moncenisio per la realizzazione della galleria ferroviaria del Frejus, che collegherà Bardonecchia a Modane.

Si interessa anche del potenziamento delle ferro-vie, facendo approvare la costruzione di 200 km di linea, riordina i porti di Ancona, Livorno, Messina, Napoli, Pa­lermo e crea il porto di Brindisi. Gli atti più importanti però sono l’emissione della prima serie dì francobolli con la dicitura “Poste Italiane” nonché l’istituzione del Poli-grafico dello Stato in Roma. Cavour lo definisce nelle sue memorie “Il più grande Ministro della nostra epoca” e, pochi giorni prima della sua repentina morte, lo propone al Re come Ministro della Marina.

II successore di Cavour, Bettino Ricasoli, lo nomina, infatti, il 12 giugno 1861.

In tale ruolo, Menabrea promuove la realizzazione dell’Arsenale Militare di La Spezia che viene affidata al Tenente Colonnello del Genio Domenico Chiodo.

Tale opera, ancora oggi, rimane la migliore realizzazione europea di ingegneria marittima. Caduto il Ministero Ricasoli dopo le elezioni del marzo 1867, il governo è affidato a Rattazzi che non riesce a formarne uno.

Allora Come Deputato, prima, e Senatore, poi, Menabrea non si interessa solo di questioni militari. Nominato Ministro dei lavori pubblici, nel 1858, fa approvare il progetto del traforo alpino del Moncenisio per la realizzazione della galleria ferroviaria del Frejus, che collegherà Bardonecchia a Modane.

Si interessa anche del potenziamento delle ferrovie, facendo approvare la costruzione di 200 km di linea, riordina i porti di Ancona, Livorno, Messina, Napoli, Pa­lermo e crea il porto di Brindisi. Gli atti più importanti però sono l’emissione della prima serie dì francobolli con la dicitura “Poste Italiane” nonché l’istituzione del Poligrafico dello Stato in Roma.

Cavour lo definisce nelle sue memorie “Il più grande Ministro della nostra epoca” e, pochi giorni prima della sua repentina morte, lo propone al Re come Ministro della Marina. II successore di Cavour, Bettino Ricasoli, lo nomina, infatti, il 12 giugno 1861.

In tale ruolo, Menabrea promuove la realizzazione dell’Arsenale Militare di La Spezia che viene affidata al Tenente Colonnello del Genio Domenico Chiodo.

Tale opera, ancora oggi, rimane la migliore realizzazione europea di ingegneria marittima.

Caduto il Ministero Ricasoli dopo le elezioni del marzo 1867, il governo è affidato a Rattazzi che non riesce a formarne uno. Allora l Re ordina a Menabrea di costituire il nuovo gabinetto, che viene formato in pochissime ore, il 27 ottobre 1867.

 Il governo Menabrea, che doveva essere “di emergenza” e trattare solo gli “affari correnti”, avvia invece una rigorosa politica finanziaria, volta al risanamento del bilancio. Aumenta la pressione fiscale e introduce la famigerata “Tassa sul macinato”, Privatizza il Monopolio dei Tabacchi per un periodo di 15 anni.

Istituisce l’Intendenza di Finanza e la Ragioneria Generale dello Stato.

Nel settore delle opere pubbliche, bonifica il lago di Agnano, amplia gli arsenali militari di Venezia e La Spezia nonché i porti commerciali di Napoli, Palermo, Castellammare di Stabia, Gallipoli, Viareggio e Licata.

Istituisce il “Servizio Militare Personale Obbligatorio”, eliminando tutte le “surrogazioni”, riduce la durata della fer-ma ed istituisce il “volontariato”. Inoltre, getta le basi di quella che sarà la futura politica coloniale dell’Italia, acquistando, tramite l’armatore Rubattino, la Baia di Assab in Eritrea.

In qualità di Ministro de-gli Esteri, carica ricoperta “ad interim”, avvia discussioni con l’Austria e la Francia per risolvere la “Questione romana”. Lo segue, dopo ben 27 mesi di governo, Giovanni Lanza che con Quintino Sella riporterà la lira alla parità con l’oro.

 Nel mese di maggio 1973, inviato in missione a Stoccolma per rappresentare come Ambasciatore Straordinario, S.M. Il Re, in occasione della Cerimonia d’Incoronazione di S.M.

Il Re Oscar II di Svezia. Il 4 aprile 1876 viene inviato AMBASCIATORE A LONDRA, dove rima-ne fino al 1882, allorché viene sostituito da Costantino Nigra. L’11 novembre dello stesso anno diventa AMBASCIATORE A PARIGI.

Dopo 10 anni di permanenza a Parigi, era il 1892 ed aveva 83 anni, chiede ed ottiene di ritirarsi a vita privata.

Pertanto, ritorna a Saint-Cassin, presso Chambery dove, 87enne, muore il 25 maggio 1896.

Così lunghi e preziosi servizi prestati al Paese nella moltiforme sua attività che spaziò, come abbiamo visto, in svariati campi delle scienze matematiche e dell’ingegneria militare di guerra, della politica, dai seggi ministeriali e dalle aule dei due rami del Parlamento e negli alti comandi dell’Esercito raggiungendo ovunque le più alte vette, ben fecero meritare al Menabrea la nomina a CAVALIERE DELL’ORDINE SUPREMO DELLA SS. ANNUNZIATA conferitagli il 4 novembre 1886 - «motu proprio» - da S.M. il Re e le più prestigiose onorificenze e medaglie e i numerosi alti riconoscimenti, che tutti gli Stati di Europa, d’America e perfino il Giappone e la Cina gli conferirono. Ne è preziosa lumino-sa testimonianza il Suo Medagliere (nell’immagine) che fra i suoi cimeli gelosamente conserva il Museo del Genio in Roma.

 

Nel 1872 l’Università di Oxford e nel 1884 l’Università di Cambridge gli conferiscono la LAUREA ONORIS CAUSA IN SCIENZE MATEMATICHE. In suo onore l’“Asteroide 1997 VA4 è stato rinominato 27988 Menabrea”.

Il Menabrea fu apprezzato Socio onorario della Società fisica e storia naturale di Gi-nevra (Diploma 1° luglio 1841); Membro della Società Reale Accademica di Savoia (R.D. 22 gennaio 1855);

Membro corrispondente della Reale Accademia delle Scienze naturali di Madrid (Diploma 1° marzo 1846); Socio dell’Accademia Romana Pontificia dei Nuovi Lincei (Diploma 1° gennaio 1850);

Membro del Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione (ben tre volte) (da ultimo R.D. 3 gennaio 1958); Membro onorario del R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere;

Membro onorario dell’Accademia Mili-tare di Stoccolma (Svezia) 29 aprile 1862;

Membro Società Filomatica di Parigi; Membro della Società delle Scienze Naturali di Cherbourg (Francia);

Socio della Reale Accademia dei Lincei (R.D. 4 gennaio 1874);

Ufficiale della Pubblica Istruzione dal Governo della Repubblica francese con Diploma 22 luglio 1887;

Socio corrispondente estero della Reale Accademia Suecica (Svedese) come da Diploma 10 maggio 1871;

Socio corrispondente dell’Istituto di Francia (Accademia delle Scienze) con Diploma 7 febbraio 1887;

Presidente della Consulta Araldica (R.D. 10 gennaio 1875); Membro dell’Accademia Reale di Scienze, Lettere e Belle Arti del Belgio con Diploma del 15 dicembre 1874.


ONORE AI CADUTI DELLA BATTAGLIA DEL MONTE ORTIGARA

Ieri, l’Associazione Internazionale Regina Elena Odv e l’IRCS hanno commemorato i Caduti della battaglia del Monte Ortigara, combattuta dal 10 al 29 giugno 1917 nel tentativo, da parte del Regio Esercito Italiano, di riconquistare il territorio perduto in seguito alla Strafexspedition (in codice Offensiva di primavera).

Il comando austro-ungarico si prefiggeva di attaccare l’Italia dal Trentino, invadere la pianura vicentina per prendere alle spalle le armate italiane schierate in Cadore, in Carnia, sul Carso e sull’Isonzo. Se tale manovra fosse stata portata a termine con successo i nostri avversari avrebbero ottenuto la completa disfatta del Regio Esercito.

Il 15 maggio 1916, preceduto da un violento e intenso bombardamento d’artiglieria, iniziò l’attacco degli imperiali. Caddero rapidamente in mano nemica gli importanti caposaldi italiani della Zugna, il Col Santo, gran parte del massiccio del Pasubio, il Toraro e l’Altipiano di Tonezza. Il 20 giugno l’avanzata austriaca si estese all’Altipiano dei Sette Comuni mettendo così in crisi l’intero schieramento difensivo italiano.

 Nel frattempo, il generale Cadorna costituì la 5a Armata e la inviò in soccorso alle truppe già presenti sugli altipiani. Dopo furibonde battaglie, combattute sullo Zovet-to, sul Lèmerle, sulle Melette di Gallio e a Foza, i nostri soldati impedirono agli austriaci di dilagare nella pianura vicentina.

Quando allo Stato Maggiore austroungarico fu chiaro che la Strafexpedition non avrebbe ormai raggiunto gli obiettivi inizialmente prefissati sospese l’offensiva e ordinò ai propri reparti di ripiegare e di attestarsi sulla linea che dal Passo dall’Agnella, attraverso il M. Ortigara, M. Campigoletti, M. Chiesa, M. Forno, giungeva fino alla Val d’Assa.

 Questa linea incuneata all’interno del territorio italiano, costituiva per austriaci una sorta di testa di ponte entro la quale poteva ammassare uomini e mezzi per una futura, sempre possibile, ripresa dell’offensiva diretta verso la pianura vicentina. Su questo tratto di fronte gli asburgici predisposero un intricato e formidabile sistema difensivo che, come vedremo in seguito, si rivelerà per i nostri soldati un’ardua impresa superare.

Non appena venne sospesa l’offensiva nemica iniziò la nostra controffensiva durante la quale i nostri reparti riconquistarono l’intera dorsale di Cima Caldiera riuscendo così a portarsi di fronte alla prima linea difensiva austriaca dell’Ortigara.

Da quelle posizioni, il 6 luglio 1916, prese il via la prima battaglia dell’Ortigara. Quel giorno due colonne di alpini ne attaccarono la vetta (a destra, verso passo di Val Caldiera, andarono all’assalto i battaglioni Sette Comuni, Cenischia e Monviso, a sinistra, verso il Campigoletti avanzarono invece l’Argentera, il Bassano, il Morbegno e il Saccarello). Nessun risultato fu tuttavia raggiunto.

Con i combattimenti del 24 luglio terminava la nostra controffensiva. Gravi furono le perdite italiane: 200 morti,1200 feriti e 47 dispersi del solo VIII gruppo Alpino.

La controffensiva italiana non aveva eliminato la profonda sacca in cui si era incuneato il nemico, ma l’aveva in parte ridotta. Il generale Cadorna, dopo la conquista di Gorizia comunicò alla 1ª armata il suo intendimento di riprendere le operazioni offensive sul fronte Trentino e invitò il Comando Supremo di studiare un piano per riconquistare, prima dell’inverno, la parte nord dell’Altopiano dei Sette Comuni.

10 giugno 1917

La preparazione dell’artiglieria ebbe inizio alle ore 5,15, ma fin dalle prime ore del mattino il tempo divenne piovigginoso e si alzò una fitta nebbia che rimase per tutto il resto della giornata.

 

La densa foschia che aveva avvolto il terreno non consentì alle batterie di colpire con precisione le postazioni ed i reticolati nemici i quali, in alcuni punti, rimasero intatti. Nella zona del M. Ortigara, alle ore 12,30, le notizie in merito all’efficacia del fuoco di preparazione pervenute al comando della 52a divisione davano:“...insufficienti i risultati fino allora conseguiti dall’artiglieria sulle trincee e sui reticolati antistanti: in particolare [...] quasi intatte le difese verso q.2003, abbastanza sconvolte fra Passo dell’ Agnella e q.2101, con varchi insufficienti quelle verso i Ponari, pressoché in piena efficienza le trincee di Valle dell’ Agnella, Monte Campigoletti, Busa della Segala”. Visti i deludenti effetti ottenuti dall’artiglieria, il comandante della 52a divisione, chiese che la preparazione di artiglieria continuasse fino alle ore 16 e che l’inizio dell’attacco fosse quindi posticipato di un’ora. La richiesta non fu accolta. Alle 15, sotto la pioggia battente, gli alpini, suddivisi in due colonne, iniziarono l’attacco balzando dalle trincee. La colonna di destra si mosse contro la cima dell’Ortigara e il Passo dell’Agnella, mentre quella di sinistra avanzò verso il Monte Campigoletti, a ovest del Monte Ortigara.

 

 

Immediatamente le artiglierie e le numerose mitragliatrici nemiche aprirono il fuoco sul vallone dell’Agnellizza (che dagli alpini venne in seguito chiamato il “Vallone della morte”) e sulle pendici dell’Ortigara, provocando larghi vuoti sui reparti avanzanti.

Gli alpini però non si persero d’animo e incitati dai loro comandanti, coraggiosamente continuarono ad avanzare verso le postazioni nemiche.

 Alle ore 17, la colonna di destra si trovava con il battaglione Bassano a contatto delle posizioni nemiche di Passo dell’Agnella e di q. 2003, il Sette Comuni sotto la q. 2105, il Monte Baldo immediatamente dietro al Bassano, il Verona sotto al Sette Comuni, mentre il resto degli altri battaglioni stavano rapi-damente sopraggiungendo. Quando alle ore 17,30 giunse l’ordine di proseguire l’attacco, il Bassano, nonostante il mi-cidiale fuoco delle mitragliatrici, superò i reticolati nemici e dopo aspra lotta corpo a corpo, si impadronì del Passo del-l’Agnella, di quota 2003 e di quota 2101 poste a est del Monte Ortigara.

Contro la cima dell’Ortigara, si erano diretti anche i battaglioni Sette Comuni e Verona, ma quando questi raggiunsero la linea nemica, trovarono i reticolati ancora intatti. Sottoposti ad incessante e micidiale fuoco delle mitragliatrici, i due reparti alpini, per non essere totalmente annientati, ripiegarono sotto il primo gradino roccioso dove si attestarono a difesa. I battaglioni Monte Balbo, Monte Clapier e Val Ellero, riuscirono invece a conquistare solamente qualche tratto di trincea, sul fianco settentrionale delle posizioni di q. 2105 dell’Ortigara, ma ogni altro movimento in avanti fu loro precluso dalla violenta reazione dell’avversario.

Nel frattempo, la Colonna di Sinistra, con il battaglione Mondovì, conquistava il Corno della Segala, importante caposaldo nei pressi di Monte Campigoletti, mentre il battaglione Vestone occupava una prima lenea di trincee sul Costone dei Pomari. Ma quando l’unità, giunse sotto un secondo ordine di trincee ancora intatto, fu costretto a ripiegare con sensibili perdite a causa del violento fuoco scatenato dall’avversario ben trincerato sulle proprie posizioni.

Gli altri reparti della colonna, che erano riusciti a raggiungere le pendici di M. Campigoletti, verso le ore 17 furono a loro volta obbligati a ritirarsi per le gravi perdite subite.

Tra queste figuravano quelle del comandante del battaglione Mondovì, gravemente ferito, quelle dei tre comandanti di compagnia e di gran parte degli ufficiali.

Nonostante il buon un successo conseguito dai reparti posti all’estrema ala destra, che erano riusciti a portandosi sotto la linea principale di difesa dell’avversario, la prima giornata di battaglia, si chiudeva con la cima principale dell’Ortigara (q.2105), saldamente in mano austriaca, difesa dalle riserve del IV/14° reggimento di Lienz e dal XXIII Feldjager.

 Le nostre perdite erano state sensibili, anche per i battaglioni di rincalzo. La 52a divisione aveva perduto quel giorno 122 ufficiali e 2463 militari di truppa.

11 giugno 1917

Alle ore 05,30, il Comando d’Armata comunicò ai comandi dipendenti che: “a causa delle condizioni atmosferiche, l’azione era sospesa salvo piccole azioni per migliorare situazioni locali”.

Il generale Montuori, comandante del XX corpo, a sua volta, comunicò alla 52ª divisione che tra le azioni locali erano da intendersi la conquista della vetta dell’-Ortigara e l’allargamento della nostra occupazione fino a Passo di Val Caldiera. Alle ore 9 ebbe inizio il bombarda-mento di preparazione da parte della nostra artiglieria che proseguì, sebbene ostacolato dalla nebbia, fino alle ore 16. A quell’ora, con tempo pessimo, gli alpini dei battaglioni Verona e Sette Comuni attaccarono la selletta fra le due quote dell’Ortigara riuscendo a raggiungere la contrastatissima q. 2105. Tuttavia, subito dopo, a causa dei decisi contrattacchi austriaci, vennero respinti con gravissime perdite. Nelle stesse ore, il battaglione Spluga attaccava in direzione del passo di Val Caldiera riuscendo, nonostante le forti perdite, a giungere sino sulle posizioni di q. 2060 e, con alcuni elementi, sulle pendici sud-orientali di M. Castelnuovo.

 L’ulteriore avanzata venne preclusa per la tenace resistenza opposta dal nemico.

Pressato dai contrattacchi dell’avversario, che aveva fatto affluire truppe fresche sulla linea di combatti-mento, il battaglione Spluga, nonostante il sacrificio dei propri alpini, fu costretto a ripiegare sulle posizioni di q. 2101. A sera il Comandante della 52a divisione, dispose per l’invio sulle posizioni raggiunte di forze fresche con le quali pro-cedere alla conquista degli obiettivi assegnati. Più tardi, però, il comando d’armata comunicò che, a causa delle avverse condizioni atmosferiche, le operazioni non sarebbero state riprese prima di tre giorni. Nella giornata, la 52ª divisione aveva perduto: 16 ufficiali (3 morti, 12 feriti, 1 disperso) e 528 militari di truppa (54 morti,420 feriti e 54 dispersi).

12 - 14 giugno 1917

 

Il 12 giugno, i due contendenti si rafforzarono sulle proprie posizioni e sostituirono i reparti più provati. L’artiglieria austriaca, bersagliò le falde orientali di M. Ortigara e le posizioni conquistate della 52a divisione. La nostra artiglieria operò invece contro gli ammassamenti di truppe nemiche sul Passo di Val Caldiera e contro una colonna che dalla Val Sugana saliva verso il passo dell’Agnella. Nella notte del 13 giugno reparti austro-ungarici (del 59° e del 14° fanteria) partendo da quota 2105 dell’Ortigara e dalle pendici di Monte Castelnuovo condussero due attacchi contro la q. 2101.

 

Entrambi gli assalti furono respinti dai nostri che inflissero all’avversario sensibili perdite.

Il giorno 14 giugno nel settore della 52ª divisione l’artiglieria nemica, dalla Valsugana e dal Corno di Campobianco, colpì ripetutamente le nostre posizioni avanzate dei Pomari e di q.2101 oltre a quelle di Cima Campanella e di Monte Lozze. In tre giorni (12 - 14 giugno) la 52ª divisione perse complessivamente 28 ufficiali (3 morti e 25 feriti) e 422 militari di truppa (53 morti, 298 feriti e 71 dispersi).

Il contrattacco austro-ungarico del 15 giugno 1917

La riconquista delle posizioni perdute il giorno 10 giugno costituiva per gli austriaci, un’imperiosa necessità.

Per questo, il comando del III corpo di armata austro-ungarico, seriamente preoccupato della possibilità di perdere totalmente il massiccio dell’Ortigara, il che avrebbe potuto compromettere la difesa dell’intero Altipiano, aveva ordinato al comandante della 6a divisione a.u. di rioccupare al più presto q. 2101, il passo dell’Agnella e q.2003.

L’operazione, denominata in codice Operazione Anna, ebbe inizio verso le ore 2,00 del 15 giugno, quando l’artiglieria austro-ungarica aprì un violentissimo fuoco contro le nostre posizioni di q. 2101 e di Passo dell’Agnella e sulle retrovie di esse. Alle 02,30 i reparti d’assalto austro-ungarici composti dal 14° battaglione, da squadre del 17° Reggimento Kronprinz e del 59° Reggimento Rainer sferrarono l’attacco.

La rapidità dell’azione e l’interruzione delle comunicazioni non consentirono ai nostri comandi di inviare celermente i rinforzi ai reparti posti sulle posizioni avanzate. La lotta fu quindi sostenuta dalle sole truppe che si trovavano in prima linea che comunque sostennero egregiamente il primo urto (si trattava degli appartenenti ai battaglioni Ellero e Clapier che in quel momento stavano per essere sostituiti dai battaglioni Spluga e Tirano).

Il combattimento durò accanito e con alterne vicende, fino all’alba, ma alla fine il nemico fu costretto a ripiegare sulle sue posizioni di partenza. Durante un ardito contrattacco i nostri soldati riuscirono addirittura a portarsi sulla quota 2105, che fu poi abbandonata di fronte alla pronta ed efficace reazione delle preponderanti forze avversarie. Alle ore 8,30, il nemico portava una nuova minaccia contro il nostro fianco sinistro. L’azione si pro-trasse fino a mezzogiorno quando l’avversario, i cui attacchi erano sistematicamente rintuzzati dai nostri soldati, ritenendo inutile ogni altro tentativo si ritirò sulle proprie posizioni. Le nostre perdite furono: 62 ufficiali, (12 morti, 48 feriti, 2 dispersi) e 1382 militari di truppa (217 morti, 896 feriti, 2269 dispersi); quelle del nemico, secondo la Relazione Ufficiale Austriaca, ammontarono complessivamente a 6.000 uomini .

16 - 17 giugno 1917

Nei giorni 16 e 17 giugno comandi e reparti italiani si dedicarono ai preparativi per l’imminente ripresa dell’azione offensiva. Da parte austriaca, il feldmaresciallo Conrad aveva ordinato la riconquista delle posizioni perdute da sostenersi col maggior numero possibile di bocche da fuoco.

La scelta della data per l’azione era stata lasciata comunque alla discrezione del comandante della 6ª divisione austro-ungarica., al quale era stato però fatto osservare che ogni giorno di ritardo poteva incidere negativamente sulla buona riuscita del contrattacco.

18 giugno 1917

Fra il 16 ed il 18 giugno, le nostre truppe effettuarono gli spostamenti necessari per assumere lo schieramento stabilito per la nuova offensiva. Alle ore 8 del 18 giugno ebbe inizio regolarmente, su tutta la fronte di competenza dell’armata la preparazione d’artiglieria. Il nemico reagì vivacemente e in particolar modo nella zona

dell’Ortigara, sulla quale concentrò il proprio fuoco. Il tiro delle nostre batterie conseguì ottimi risultati in molti punti, infliggendo perdite e danni sensibili all'avversario. Anche la Regia Aeronautica collaborò all'azione, sorvegliando le linee di comunicazione, segnalando i movimenti nemici e osservando i risultati del nostro tiro.

Poco dopo mezzogiorno le condizioni atmosferiche, fino a quel momento ottime, andarono sempre più peggiorando.

 

La nebbia che intanto era sopravvenuta cominciò ad ostacolare in modo particolare l’osservazione del tiro.

In considera-ione di ciò, il comando di armata autorizzò le batterie a variare la durata delle pause di tiro, così da sfruttare i momenti di maggiore visibilità, disponendo per l’indomani mattina l’ultima fase della preparazione che doveva essere eseguita soltanto in buone condizioni di visibilità.

Le fanterie dovevano avanzare solo nel caso vi fosse stata la perfetta azione dell’artiglieria di accompagnamento. Nel complesso i risultati ottenuti dell’artiglieria nella giornata del 18 si rivelarono alquanto modesti, tranne che nella zona dell’Ortigara.

L’attacco delle fanterie pertanto non avrebbe potuto avere luogo prima del giorno successivo.

Nella considerazione che un attacco dell’Ortigara in pieno giorno avrebbe però incontrato grandi difficoltà a causa della notevole potenza di fuoco dell’artiglieria avversaria, fu disposto che l’attacco della 52a divisione fosse anticipato alle 6 (l’ora era stata in precedenza fissata per le ore 8 del 19 giugno).

 

19 giugno 1917

Durante la notte sul 19 giugno piovve ininterrottamente sino al mattino, poi il tempo migliorò. Alle ore 6, come previ-sto dai piani operativi, dopo la violenta preparazione d’artiglieria, la vetta dell’Ortigara fu attaccata con azione convergente portata da tre colonne formate dai battaglioni alpini Monte Stelvio, Sette Comuni, Verona, Monte Baldo e Valtel-lina.

 Il movimento delle nostre unità, per quanto duramente ostacolato dal vivace fuoco avversario, proseguì rapido tant’è che alle 6,40, le prime ondate, delle tre colonne, raggiunsero la vetta dell’Ortigara. Caddero nelle nostre mani 74 ufficiali, 944 militari di truppa, 5 cannoni e 4 mitragliatrici. All’estrema destra del nostro schieramento, la colonna formata dai battaglioni alpini Val Stura, Val Dora e da un battaglione dal 9° reggimento bersaglieri puntò verso il passo di Val Caldiera, ma fu fermata dal micidiale tiro delle mitragliatrici e delle artiglierie austriache.

Sull’Ortigara, intanto, dopo un primo rapido riordinamento delle forze, i nostri reparti si spinsero fin sotto q. 2093 e sulle falde del M. Castelnuovo ma urtarono contro le solide difese nemiche imperniate sui capisaldi di q. 2060 e di q. 2093. Poiché fortemente contrastati dal fuoco delle mitragliatrici e sottoposti al violento fuoco di repressione da parte delle artiglierie avversarie, i nostri soldati, già duramente provati anche per la stanchezza accumulata nei precedenti giorni di battaglia, furono costretti a ripiegare nuovamente sulle posizioni di cresta. Il nemico aveva nel frattempo fatto affluire le sue riserve riuscendo a chiudere la pericolosa falla aperta dai nostri reparti fra q. 2060 e M. Campigoletti.

La nostra conquista rimase dunque limitata all’Ortigara. Sulla vetta, dominata da una serie di postazioni austriache collo­cate più in alto, tutta l’artiglieria nemica concentrò il proprio fuoco che ebbe risultati ancor più devastanti a causa del terreno roccioso che moltiplicava gli effetti dei colpi.

Le perdite della divisione, nell’aspra giornata, erano state sensibi-li:146 ufficiali (28 morti, 115 feriti, 3 dispersi) e 3531 sottufficiali e truppa (450 morti, 2755 feriti, 326 dispersi). An-che le perdite subite dall’avversario furono gravi.

20 - 24 giugno 1917

Dopo la conquista della cima dell’Ortigara, i nostri comandi erano consapevoli che la controffensiva austriaca avrebbe potuto aver luogo a breve e perciò nei cinque giorni che si susseguirono nel settore dell’Ortigara gli alpini e i fanti, no-nostante sottoposti al micidiale tiro delle artiglierie nemiche15, provvidero alla fortificazione delle posizioni conquista-te.

Si provvide a sostituire i reparti più provati i con altri freschi e al trasferimento di alcune batterie da montagna. Nonostante le difficoltà sulla cima rocciosa dell’Ortigara, fu creata una linea difensiva ripartita in tre settori.

25 giugno 1917

Alle ore 2,20 si scatenò all’improvviso il violento tiro dell’artiglieria nemica.

I proietti a gas, dei quali il nemico fece largo uso, accrebbero notevolmente gli effetti devastanti del tiro sulle nostre truppe che subirono numerose perdite.

Le prime ondate nemiche, facendo uso dei lanciafiamme e delle bombe a mano, riuscirono a vincere la vivace resistenza opposta dai nostri reparti.

Non appena il comandante della 52ª divisione poté avere la certezza della caduta dell’Ortigara impartì energici ordini per contrattaccare e ricacciare il nemico, prima che avesse il tempo di rafforzarsi sulle posizioni appena conquistate.

Quando l’attacco portato dai battaglioni alpini Monte Spluga, Tirano, Cuneo e Marmolada scattò, la reazione degli austriaci fu fermissima.

 Alle ore 23,40, il comando del XX corpo d’armata disponeva che per l’alba del 26 gran parte dei battaglioni fosse ritirata, sulla vecchia linea di vigilanza o in quella di difesa ad oltranza.

26 - 30 giugno 1917: termine dei combattimenti.

Verso le ore 2 del 26 giugno iniziò il ripiegamento.

Verso le ore 3 del 29 giugno, una compagnia del X/14° austro-ungarica, con altri nuclei d’assalto, attaccò la 297ª compagnia.

Il Comando del XX corpo d’Armata decideva di far ripiegare le nostre truppe sulle primitive posizioni.

Il ripiegamento fu compiuto nella notte sul 30 giugno, con l’evacuazione di tutti i feriti e il trasporto del copioso materiale da trincea.

 Con le operazioni del 29 giugno ebbe termine la battaglia che assunse il nome dell’Ortigara.

Le cause che portarono al fallimento dell’offensiva sono state attribuite alle avverse condizioni atmosferiche, alla con-formazione del terreno, che favorì più il nemico che noi, i consistenti apprestamenti difensivi realizzati dell’avversario e infine le evidenti le responsabilità nella conduzione della battaglia da parte dei comandi italiani i quali non tennero conto di quegli elementi di carattere contingente e realistico che erano i presupposti indispensabili per la buona riuscita dell’operazione.

Tra il 10 e il 29 giugno del 1917, la battaglia ci costò tra morti, feriti e dispersi almeno 26.000 uomini (altre fonti fanno salire le perdite a 28.000 soldati).

La sola 52ª divisione Alpina lamentò la perdita di ben 12.633 unità.

A ricordo di quei drammatici combattimenti nel 1920 sulla quota 2105 fu eretta una colonna mozza, simbolo stesso dell’Ortigara, con inciso: per non dimenticar


IL CAPO DELLO STATO SERGIO MATTARELLA CON LA M.O.V.M. PROF. PAOLA DEL DIN CARNIELLI PRESIDENTE ONORARIA DELL’ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE REGINA ELENA ODV


Rivolgo un saluto di grande cordialità a tutt i i presenti, al Ministro, al Presidente della Regione, al Sindaco, al Presidente della Comunità di Montagna, ai Sindaci presenti della Carnia.

A Paola Del Din, che ringrazio molto per la sua preziosa testimonianza, e a quanti presenti che hanno fatto parte del movimento partigiano.

Il 1944 fu un anno carico di orrore, in Italia e in Europa. Il ritiro progressivo delle truppe naziste lasciava die-tro di sé una drammatica scia di stragi.

Ne sono testimonianza i villaggi dei nostri Appennini e delle nostre Alpi violati e incendiati, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, da Civitella Val di Chiana a Fivizzano. A Boves, alla Carnia.

 

L’offensiva alleata martellava le città con bombardamenti dagli esiti spesso tragici, come quello che portò, a Milano, alla morte di 184 bambini, nella Scuola elementare Francesco Crispi di Gorla.

Da Fossoli partivano i trasporti degli ebrei verso i campi di sterminio di Bergen Belsen e Auschwitz. Contemporaneamente prendeva forza il movimento di Resistenza al fascismo. Fascismo che, con il regime della Repubblica Sociale Italiana, era complice della ferocia nazista.

Si affacciavano i primi embrioni di partecipazione politica e di aspirazione democratica.

Ad Ampezzo, la Repubblica rende oggi onore a quanti hanno contribuito alla causa della libertà, animando l’esperienza delle “zone libere”, delle “Repubbliche partigiane”.

Una causa che abbiamo visto e ascoltato poc'anzi raffigurata in maniera esemplare dalla Medaglia d’oro, dalla sua Medaglia d’oro, Paola Del Din.

Vi è una sequela, una serie di ricordi di queste esperienze.

Da Montefiorino all’Ossola, dall’Alto Monferrato alla Valsesia, alla Carnia, venne offerto l’esempio di genti che non si contentavano di attendere l’arrivo delle truppe alleate ma intendevano sfidare a viso aperto il nazifascismo, dimostrando che questo non controllava né città né territori, mettendo a nudo quel che era: truppa di occupazione.

Ecco perché la battaglia della Resistenza era una battaglia per l’indipendenza, oltre che per la libertà.

L’estate partigiana del 1944 si nutriva della convinzione che, presto, gli Alleati avrebbero sfondato la Linea Gotica per porre rapidamente fine alla guerra, puntando dal Veneto verso l’Austria, i Balcani.

La convinzione era così diffusa da spingere il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia - il CLNAI - a porsi, il 2 giugno 1944, giusto due anni prima della data del referendum istituzionale - il problema della transizione dei poteri nelle terre occupate e a definire l’obiettivo dell’azione dei Patrioti in una circolare diretta ai Comitati di Liberazione nazionali, regionali e provinciali.

Vi si diceva: “l’insurrezione nazionale, insieme alle operazioni condotte dall'esercito regolare, deve fornire la prova storica dell’opposizione del popolo italiano al nazifascismo e costituire così la sua riabilitazione di fronte al mondo intero”.

Un’ambizione necessaria, per ridare all’Italia il suo posto tra le nazioni civili.

La Resistenza ricusava l’idea che il ruolo del movimento partigiano fosse, con azioni di guerriglia e di disturbo, esclusivamente di affiancamento all'offensiva delle truppe alleate.

Di rincalzo giungevano le istruzioni del Corpo Volontari della Libertà, poche settimane dopo, il 28 giugno, indirizzate alle formazioni partigiane, con una circolare sulla “occupazione di passi e vallate, le operazioni militari e l’organizzazione civile”.

Vi si osservava che: “lo sviluppo del movimento partigiano comporta l’estensione delle zone controllate stabilmente dalle formazioni patriottiche e la vera e propria occupazione in zone determinate di paesi e vallate”.

Questo allo scopo, anche di avere organi locali in grado di essere interlocutori con le forze alleate di cui si attendeva l’arrivo.

 

Un’estate, un autunno, di attesa ansiosa e, insieme, di intensa preparazione di una nuova Italia, dopo gli anni bui del fascismo.

Anche a questo corrispondeva il proposito di dar vita nelle zone libere alle forme di autogoverno che, ai comandi del Corpo Volontari Libertà, univano la costituzione di organi di potere popolare per regolare l’amministrazione della vita delle comunità locali.

Fu così qui in Carnia, dove le donne furono protagoniste per la prima volta nel voto, espresso nelle assemblee dei capifamiglia, e nella organizzazione del soddisfacimento dei bisogni della popolazione, ricordava poc'anzi la Presidente Regionale dell’ANPI.

Le “portatrici”, riesumando l’esperienza del primo conflitto mondiale, seppero consentire la sopravvivenza della popolazione durante l’assedio.

Del resto, caratteristica del movimento partigiano era proprio la sollecitazione all'iniziativa e alla partecipazione dal basso, dopo due decenni di subalternità e di passività popolare, frutto dell’applicazione del precetto fascista “credere, obbedire, combattere”.

La scelta politica di dar vita alle Repubbliche partigiane esprimeva una fase di maturità dell’esperienza della Resistenza, con la anticipazione della futura esperienza democratica.

La storiografia resistenziale ha definito la Carnia “laboratorio di democrazia”.

Nella opinione pubblica dopo l’8 settembre del 1943, era presente anche “l’attendismo”, la convinzione che fosse meglio non esporsi alle rappresaglie nazifasciste e attendere che gli Alleati risalissero la penisola. Questo atteggiamento non teneva in conto le sofferenze imposte alle popolazioni, quelle sofferenze gravi, imposte dalle forze occupanti, i soprusi, le deportazioni.

A levarsi furono i Resistenti, obbedendo all'ammonimento di Giuseppe Mazzini: “più che la servitù temo la libertà recata in dono da altri”.

Perché la Resistenza non era immobilismo.

Fu una sfida dura e i caduti di questa terra, che la Repubblica ha onorato con la Medaglia d’argento al Valor Militare, ne sono state il prezzo.

Di quella medaglia recita la motivazione: “La gente carnica osò lanciare una intrepida sfida all’invasore nazi-sta e al suo alleato fascista, realizzando la Zona libera della Carnia, lembo indipendente d’Italia, retto dal go-verno democratico del Comitato Liberazione Nazionale, formato da civili”. E proseguiva quella motivazione: “Con una continua, eroica, tenace lotta, le divisioni partigiane Garibaldi e Osoppo, con l’appoggio delle popolazioni locali, uomini e donne, liberarono una estensione di 3500 chilometri quadrati, che comprendeva ben 42 Comuni”.

E aggiungeva ancora: “La difesa della Zona Libera e della sua capitale, Ampezzo, costrinse l’occupante a distogliere numerosi reparti dai fronti operativi per impiegarli nella repressione che costò ben 3.500 caduti partigiani e civili, migliaia di deportati e di internati, eccidi efferati, saccheggi, rappresaglie disumane nei Comuni di Enemonzo, Forni Avoltri, Forni di Sopra, Forni di Sotto, Ovaro, Paluzza, Paularo, Prato Carnico, Sutrio e Villa Santina”.

Alla macchia, in questa zona, fu un grande numero di alpini della Divisione Julia, sfuggiti alla cattura e al destino della deportazione in Germania.

Il movimento partigiano, oltre a sottrarre dal combattimento contro gli alleati rilevanti assetti tedeschi, conseguì il grande risultato di impedire la realizzazione della coscrizione obbligatoria, volto a dar vita a un nuovo esercito asservito ai fascisti della Repubblica di Salò.

I bandi fascisti avevano fatto dei giovani dei disertori che, da renitenti alla leva, sarebbero divenuti partigiani. Anche alcuni giovanissimi furono protagonisti allora, come il quattordicenne Giovanni Spangaro, staffetta partigiana. Giovanissimi, oggi, coltivano la memoria come gli alunni della scuola di Forni Avoltri che hanno voluto dedicare un podcast agli avvenimenti della Repubblica di Carnia.

Ma la guerra in realtà era lungi dalla conclusione.

Il proclama del feldmaresciallo inglese Alexander, del 13 novembre 1944, diretto ai “patrioti”, provocò gelo profondo sulle attese di una rapida liberazione del Nord Italia.

La Linea Gotica resisteva e Alexander segnalava che alla campagna d’estate avrebbe fatto seguito una pausa. Proclamava: “i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno”. 

Ma i patrioti non erano di fronte al nemico, ma erano in mezzo al nemico e la Stasi nelle operazioni belliche portò a consentire duri rastrellamenti contro le forze partigiane.

Il “Comando per l’Italia occupata” del Corpo Volontari della Libertà reagì immediatamente, preoccupato della sopravvivenza dei circa 80.000 uomini in armi presenti nelle formazioni in quel momento, precisando ai reparti che non si trattava di smobilitazione.

A questo si aggiungeva la denuncia di “losche manovre per tregue o compromessi”, che venne fatta, la denuncia venne fatta, dal Comitato Liberazione Alta Italia, il 3 dicembre, contro il tentativo di indebo lire la Resistenza, accampando l’esistenza di trattative sotterranee in atto.

“Non c’è posto per attesisti - proclama il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia - per attesisti e tanto meno per i sabotatori dell’insurrezione nazionale, per i consiglieri di patteggiamento con il nemico”. Per proseguire: “contro gli agenti del nemico, come contro il nemico, il Comitato di Liberazione ha una sola parola: guerra”.

Ma il periodo da lì sino alla Liberazione sarebbe stato costellato di grandi sofferenze per le popolazioni. L’offensiva nazista, sostenuta da reparti cosacchi e caucasici, trasferiti al seguito della ritirata nazista da altri fronti, portò alla fine della Repubblica Partigiana della Carnia, così come avvenne, per esperienze analoghe, in altre zone d’Italia.

La condizione di terra di frontiera, area di interesse strategico per le truppe tedesche, anche ai fini di una riti-rata per l’estrema difesa della Germania, si manifestò in tutta la sua complessità.

La Carnia sarà l’ultimo lembo d’Italia a essere poi liberato e dovrà soffrire l’oltraggio di due ultime stragi, il 2 maggio 1945, a Ovaro-Comeglians e a Avasinis-Trasaghis.

Il Regno d’Italia, con l’ambigua dichiarazione dell’8 settembre 1943 e sino al cambio di fronte operato 13 ottobre successivo, con la dichiarazione di guerra a Berlino, aveva permesso l’invasione della penisola da parte delle truppe germaniche.

Si era così manifestato l’intento annessionistico da parte del Terzo Reich dei territori e delle popolazioni dell’arco alpino che andavano dall’Alto Adige alla provincia di Lubiana, sottratti alla presunta autorità del governo collaborazionista di Salò e sottoposte, in realtà, all'autorità militare tedesca.

La promessa di terre e di beni alle truppe cosacche, utilizzate nella repressione antipartigiana, prospettando loro la possibilità di trasformare la Carnia in una “Kozakenland” - con l’operazione Ataman - alimentava a maggior titolo, al contrario, la opposizione e la difesa della identità friulana da parte della Resistenza, che seppe sfuggire anche all'intento tedesco di contrapporre, in quest’area nazionalità a nazionalità.

Un tema che avrebbe visto la denunzia di Michele Gortani, poc'anzi ricordato dal Presidente della Comunità di Montagna.

Insigne geologo, Presidente in quel momento del Comitato di Assistenza per la Carnia e più tardi membro dell’Assemblea Costituente, Gortani fu il padre del secondo comma dell’articolo 44 della nostra Costituzione: quello che impone, che incarica, che dà mandato alla Repubblica di tutelare tra i beni importanti della sua vita, la montagna.

L’Italia è orgogliosa del percorso compiuto in questi quasi 80 anni dalla Liberazione.

Oggi, come poc’anzi sottolineava la Presidente Regionale dell’ANPI, storia e memoria si incontrano.

Con le contraddizioni e le sofferenze che accompagnano gli eventi bellici. La vocazione di pace del nostro Paese è segno che tutto questo non è passato invano.

Oggi la Repubblica, qui, in Friuli, riconosce in queste popolazioni, in Carnia, radici della nostra Costituzione, radici che alimentano la nostra vita democratica.

Grazie alla Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli. Grazie per quanto fatto allora, per quanto tramandato, pertanto conservato oggi.

Viva l’Italia!”.

Sergio Mattarella