MONFALCONE ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE


Monfalcone fu un importante centro industriale

e strategico durante la seconda guerra mondiale.

La città ospitava numerosi cantieri navali, che producevano navi militari per la Regia Marina italiana.

La sua posizione, sulla costa adriatica, la rendeva anche un obiettivo importante per le forze alleate.

Cantieri navali di Monfalcone

I cantieri navali di Monfalcone erano uno dei più importanti centri di produzione navale dell'Italia.

Durante la seconda guerra mondiale, i cantieri costruirono una serie di navi militari, tra cui sommergibili, cacciatorpediniere e incrociatori.

I cantieri erano anche utilizzati per la riparazione e la manutenzione di navi militari danneggiate.

All’inizio del 1947, dopo la firma del trattato di pace (10 febbraio) e il ritorno della sovranità italiana nell’Isontino (Gorizia e Monfalcone), più di duemila operai dei Cantieri navali di Monfalcone, uno dei principali del Mediterraneo, lasciano il lavoro, le case e l’Italia per raggiungere i Cantieri di Fiume e Pola e altre località della vicina Jugoslavia, dove sperano di vivere in una società libera e più giusta.

 

Nel 1947, più di duemila operai e tecnici dei Cantieri navali di Monfalcone, provenienti da varie località del Friuli Venezia Giulia, minacciati dai licenziamenti a causa della crisi produttiva, decisero di emigrare spesso con le famiglie in Jugoslavia, dove era richiesta manodopera specializzata. I “duemila” scelsero di varcare il confine anche per una convinta scelta politica.

Ai duemila operai dei Cantieri si aggiunse anche un migliaio di lavoratori, operai e contadini provenienti da altre località della regione. In seguito, la delusione per le condizioni di vita e la scelta di appoggiare Stalin contro Tito dopo la “scomunica” del partito comunista jugoslavo in seguito alla Risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948, causarono una sconfitta bruciante che ebbe devastanti ripercussioni sulle vite personali e familiari: dal ritorno a casa alla detenzione nei gulag di Tito, tra i quali “l’inferno” di Goli Otok.

 

Questa conclusione tragica è una delle vicende più drammatiche, ma ancora poco conosciute della storia novecentesca della Venezia Giulia, per lunghi anni rimossa e solo recentemente studiata dalla storiografia per lo più locale. I fatti rinviano a una complessità di questioni non ancora del tutto analizzate e rielaborate.

E’ un tema storiograficamente complesso, perché vi si intrecciano, spesso in modo contraddittorio, fattori, motivazioni e dipanarsi di avvenimenti storici. Ma proprio per questo, può tradursi in un’efficace attività didattica.

In particolare, l’interesse può riguardare l’incrocio tra condizioni lavorative all'interno di una grande fabbrica moderna nell'area del confine orientale, le rivendicazioni economiche e gli ideali di rinnovamento sociale e politico in un’ottica di appartenenza alla classe che preferisce la solidarietà e la fratellanza rispetto alle contrapposizioni tra nazionalismi.

Campo di concentramento di Monfalcone

Con l'armistizio dell'8 settembre 1943, Monfalcone fu occupata dalle truppe tedesche.

I tedeschi continuarono a utilizzare i cantieri navali per produrre navi militari, e la città fu anche sede di un campo di concentramento per i prigionieri di guerra alleati.

Il campo di concentramento di Monfalcone era situato nella zona industriale della città, e ospitava circa 500 prigionieri di guerra. I prigionieri erano costretti a lavorare nei cantieri navali e in altre industrie locali.

Le condizioni di vita nel campo erano molto dure, e molti prigionieri morirono a causa di malattie o malnutrizione.

Bombardamenti di Monfalcone

 

Ricordiamo che Monfalcone nella Seconda guerra mondiale aveva circa 20 mila abitanti.

Una città che ha subito una devastazione importante durante la Seconda guerra mondiale soprattutto a causa dei ripetuti bombardamenti aerei.

Furono ben sette quelli ricordati nella medaglia d'argento al Valor militare conferita alla città, e 143 furono le vittime civili di Monfalcone durante quel conflitto.

Anche se in realtà le vittime in relazione ai bombardamenti in città vengono individuate in più di sette date e quella peggiore che segnò il maggior numero di vittime fu certamente quella 12 aprile del 1944.

 

 Le altre date che riportano vittime in relazione ai bombardamenti sono:

·        20 aprile del 1944

·        21 aprile del 1944

·        1° maggio del 1944

·        25 maggio 1944

·        4 marzo 1945

·        5 marzo 1945

·        16 marzo 1945

 

·        17 marzo 1945

Liberazione di Monfalcone

La storia della frontiera orientale è segnata da due aspetti fondamentali.

Dal settembre del 1943, con la costituzione del Litorale Adriatico, il territorio della Venezia Giulia fu annesso, di fatto, al Reich hitleriano subendone il dominio ideologico, politico ed economico; mentre, dopo la fine della guerra e fino al 15 settembre 1947, l’Isontino (Gorizia e Monfalcone) fu attraversato da conflitti e lacerazioni che procrastinarono l’instaurarsi della pace e delle regole democratichezione di Monfalcone

Il 1º maggio 1945, Monfalcone fu liberata dalle truppe jugoslave.

La città era stata gravemente danneggiata dai combattimenti e dai bombardamenti.

Molte persone erano state uccise o ferite. La ricostruzione della città fu un compito lungo e difficile.


FUGA DALL’UTOPIA

LA TRAGEDIA DEI “MONFALCONESI”

anni 1947-1949


L’amministrazione angloamericana, che subentrò a quella provvisoria partigiana, ripristinò la legalità del vivere civile, ma di fatto escluse dal governo del territorio le popolazioni che lo abitavano.

Dal punto di vista della partecipazione politica, gli Alleati avevano portato una democrazia formale, con le libertà di pensiero, parola e opinione, l’uguaglianza tra i cittadini ed alcune importanti forme di assistenza economica e sociale in regioni martoriate da una guerra durissima.

Ma non avevano portato la democrazia dell’autogoverno delle comunità, delle elezioni libere e degli amministratori scelti dal popolo.

A Monfalcone non si votò per il referendum nel quale il resto d’Italia scelse tra monarchia e repubblica, come non si votò per la Costituente o per le amministrazioni locali. In assenza di elezioni, i partiti utilizzarono la piazza non solo per esporre le proprie idee e programmi, ma anche per valutare la propria forza, e per imporre la propria visione del mondo agli amministratori alleati.

Per questo motivo, vi furono manifestazioni politiche che degenerarono nella violenza.

 

IL “CONTROESODO”

 

In questa situazione, dove la legalità imposta dagli Alleati da molti veniva vista come parziale e poco rispondente agli ideali perseguiti durante la guerra partigiana di liberazione, e nella prospettiva ormai concreta del ritorno della sovranità italiana nell’Isontino, a Gorizia e a Monfalcone, tra la fine del 1946 e la metà del 1948, un numero notevole di lavoratori dei Cantieri navali di Monfalcone emigrò nella giovane Repubblica federativa socialista jugoslava. Allo stato attuale delle ricerche non ci sono elementi quantitativi definitivi, anche per le difficoltà di recuperare i dati nelle anagrafi comunali.

Ma da varie fonti italiane e slovene si può ricavare che dai Cantieri di Monfalcone si spostarono in Jugoslavia tra i duemila e i duemilacinquecento operai, pressappoco un quinto del totale delle maestranze allora impiegate.

Partirono per la Jugoslavia anche diverse famiglie contadine e coloniche delle zone limitrofe, del Gradiscano, del Cormonese, della Bassa Friulana. Inoltre, alcune testimonianze raccontano di partenze dal Pordenonese e dalla Carnia.

Un intreccio di motivazioni è alla base di quello che è stato definito nel linguaggio popolare come il “contro esodo”. Il termine marca la contemporaneità di due fenomeni di peso diverso e di segno contrario.

A fronte dei trecentocinquantamila esuli dall’Istria che scelsero, a partire dal 1947, di abbandonare le proprie case in seguito all’occupazione jugoslava delle terre dell’ex Regno d’Italia, spinti dalla paura o dai cambiamenti avvenuti nei loro paesi di origine, i lavoratori monfalconesi attratti dal mito jugoslavo decisero invece di contribuire con la propria competenza ed esperienza professionale alla costruzione di una società socialista in cui avevano creduto con convinzione.

Nella nuova Jugoslavia parecchie persone vedevano la possibile realizzazione delle molte liberazioni cui aspiravano: una società che avrebbe dovuto fondarsi sull’uguaglianza, un’economia dove i gruppi di lavoratori potevano autogestire la propria attività, una forma politica federale che avrebbe dovuto tutelare le specificità locali e gli interessi dei cittadini.

 

Molti scelsero la nuova patria come effetto della propria militanza politica. Come scrive Galliano Fogar nell’introduzione alle Memorie di un monfalconese nella Jugoslavia del dopoguerra:

Il comunismo monfalconese aveva svolto fra le due guerre un’azione cospirativa e mobilitante, lunga e tenace, dentro e fuori il Cantiere navale monfalconese, grande struttura della navalmeccanica nazionale, irradiandosi non solo nell’area isontina della provincia ma in quella finitima carsica e basso-friulana.

Nella storia dell’attività clandestina del partito in Italia, quella dei militanti monfalconesi era stata una delle più significative anche con la partecipazione di operai e contadini sloveni e perché nel suo svolgersi, fra gravi persecuzioni e perdite, aveva coinvolto centinaia di famiglie di un vasto territorio che andava dal Friuli orientale da una parte e il Carso tra Monfalcone e Trieste dall’altra e nella stessa città di Trieste che forniva nuclei operai al Cantiere monfalconese.

 

LA CONCENTRAZIONE INDUSTRIALE DI MONFALCONE

 

Tra le due guerre, il mandamento di Monfalcone, nel basso Isontino, era una zona di grande concentrazione industriale.

Le principali fabbriche di Monfalcone erano, oltre ai Cantieri, un lanificio, una raffineria di olio, una fabbrica di soda Solvay, una di pece, una di scatole di latta, una fabbrica di prodotti chimici.

Alla fine degli anni Trenta, le fabbriche nel complesso occupavano circa ventimila operai. L’industria navalmeccanica dei Cantieri del gruppo CRDA (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) costituiva uno dei maggiori complessi italiani del settore.

 Il gruppo formalmente costituito nel 1930 era una delle grandi eredità dell’Impero austro-ungarico che nell’area di Trieste, Muggia, Monfalcone aveva il suo più importante centro di costruzioni navali e di motori marini.

I nuovi modi di produzione del grande complesso industriale monfalconese segnarono profondamente tutta la zona meridionale dell’Isontino e anche in parte il Basso Friuli che fornivano la manodopera ai Cantieri di Monfalcone.

 La crescita di una classe operaia modificava gli usi, le tradizioni e strutture di un mondo contadino composto in gran parte di piccoli proprietari, mezzadri e braccianti spesso costretti all’emigrazione a causa della miseria e di patti agrari iniqui.

 La fabbrica, inoltre, era il centro di un forte movimento operaio che nel partito socialista prima e in quello comunista dopo il 1921, trovava il suo sbocco ideologico e organizzativo. Uno dei dati più importanti fu la formazione di una coscienza internazionalista in una comunità italiana di confine che includeva una consistente minoranza slovena (Carso goriziano e triestino) vessata dallo sciovinismo fascista.

IL MOVIMENTO COMUNISTA

 

Negli anni della dittatura fascista operarono in Cantiere clandestinamente cellule comuniste da cui dipendevano altre cellule sparse sul territorio.

La loro attività principale era il Soccorso Rosso cioè la raccolta di fondi per gli arrestati e i condannati dal Tribunale speciale.

Era un’esperienza di solidarietà militante. Il Soccorso Rosso, dopo l’annessione della provincia di Lubiana allo stato italiano (1941) e l’inizio della resistenza slovena, fu uno strumento logistico paramilitare in collegamento con i partigiani sloveni ai quali giungevano denaro, medicinali, viveri.

Il movimento poi diede un forte apporto di quadri e militanti al movimento partigiano dopo l’otto settembre.

La saldatura tra antifascismo politico e Resistenza armata fu molto marcata perché già dal 1942 fu anticipata dai collegamenti tra comunisti locali e organi politici e militari sloveni operanti nel retroterra della provincia.

Lo scenario della lotta a fianco delle formazioni slovene con il partito comunista sloveno in posizione dominante e in una zona, fra l’Isonzo e il vecchio confine a netta prevalenza slovena, ebbe dunque un carattere plurinazionale e uno sviluppo non sempre facile per gli “steccati” eretti dalla fallimentare politica fascista. I nodi apparvero alla fine risolti con l’inquadramento militare, operativo e politico nell’esercito sloveno in contrasto con gli accordi presi con il PCI nazionale nel 1944, di una parte delle formazioni italiane. […]

L’affinità ideologica fra partiti comunisti, il marcato internazionalismo d’impronta filosovietica dei comunisti italiani, alimentarono in parecchi dirigenti e militanti, la convinzione di una soluzione di “classe” della guerra partigiana, propiziata dalla presenza egemonica dei comunisti di Tito.

Dopo l’otto settembre del 1943, gli operai di Monfalcone diedero o vita a un’insurrezione spontanea, la “Brigata Proletaria”, la cui struttura politica era formata da militanti comunisti, già attivi e perseguitati durante il ventennio fascista.

 In seguito, dopo la sconfitta nella Battaglia di Gorizia, molti lavoratori in fuga entrarono nelle formazioni partigiane sia collaborando con l’esercito popolare jugoslavo sia combattendo all’interno dello stesso come nel caso della formazione italiana “Fratelli Fontanot” che, nata nel dicembre del 1944, operò sempre alle dipendenze del VII Corpus sloveno nel territorio della Bela Krajina e della Suha Krajina in Slovenia.

L’ISONTINO, UNA REGIONE CONTESA

 

Alla fine della guerra, nel 1945, a differenza di quanto accadeva nel resto d’Italia con il lento avvio dell’economia e la ricostruzione democratica, nell’Isontino il problema principale fu la questione dell’appartenenza statale: dai quaranta giorni dell’occupazione jugoslava con l’insediamento dei poteri popolari (1 maggio – 12 giugno 1945) ai due anni del Governo Militare Alleato (12 giugno 1945 – 15 settembre 1947) che controllava e gestiva direttamente la politica locale.

La questione del confine determinò una spaccatura netta e profonda tra chi chiedeva l’annessione alla Jugoslava socialista e chi si battesse per rimanere in Italia nel nuovo stato repubblicano. Così la vita civile fu lacerata da tensioni e conflitti.

È in questa situazione che si determina la partenza per la Jugoslavia di migliaia di lavoratori.

Nell’autunno del 1946 si erano concluse le trattative internazionali sull’appartenenza statale della Venezia Giulia.

Questo territorio, dopo quaranta giorni di occupazione jugoslava nel maggio del 1945 con l’insediamento dei poteri popolari, era stato diviso in via provvisoria in due zone.

 La Zona A, amministrata dal Governo Militare Alleato (GMA), anglo-americano, era costituita dalle province di Gorizia e di Trieste e dalla città di Pola, L’Istria e la città di Fiume, invece, formavano la Zona B, posta sotto amministrazione militare jugoslava.

Da quel momento la situazione del confine italo – jugoslavo fu argomento di discussione e mezzo di lotta politica a livello locale e internazionale. In seguito, gli accordi del luglio del 1946 sistemarono il passaggio definitivo di Gorizia e Monfalcone all’Italia e la creazione di un Territorio Libero comprendente la città di Trieste sotto amministrazione anglo-americana. L’Istria rimaneva sotto il governo militare jugoslavo, compresa la città di Pola [doc.3].

IL MOVIMENTO COMUNISTA, FRA ITALIA E JUGOSLAVIA

 

Fino all’estate del 1946, il partito comunista della Regione Giulia (PCRG), che era nato il 12 agosto 1945 sulla base di un accordo tra il partito comunista italiano e sloveno, si era impegnato per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia Socialista.

 Era questa una scelta condivisa con sincera convinzione da una buona parte dai militanti del PCRG.

 Le prime manifestazioni organizzate del partito giuliano erano espressione di un internazionalismo che considerava l’appartenenza alla multinazionale e rivoluzionaria Repubblica Federativa di Jugoslavia una soluzione più vicina agli interessi di classe del movimento operaio locale

 L’Unione antifascista italo – slovena (UAIS), l’organizzazione di massa legata ai due partiti comunisti italiano e sloveno, sosteneva la fratellanza tra le diverse nazionalità e rifiutava la divisione della Venezia Giulia in due zone. Ben presto le organizzazioni del partito della Regione Giulia dovettero affrontare le organizzazioni dei partiti e dei movimenti filo-italiani appoggiate dallo stesso Governo militare alleato.

La tensione più forte si ebbe alla fine di giugno del 1946, quando alcuni militanti del partito giuliano bloccarono poco oltre il ponte sull’Isonzo a Pieris i ciclisti del Giro d’Italia, diretti a Trieste nel quadro di un’operazione gestita dall’autorità italiane in funzione propagandistica.

 Il blocco scatenò una reazione delle squadre filo-italiane che diedero vita a episodi di violenza con incendi di sedi comuniste e slovene a Trieste e nell’Isontino.

Ne seguì uno sciopero generale proclamato dai Sindacati Unici (SU) legati al partito comunista giuliano. Lo sciopero fu dichiarato illegale dal GMA: l’intero comitato per sfuggire all’arresto riparò nella zona B. Lo sciopero finì il 12 luglio del 1946 con la sconfitta delle organizzazioni comuniste. Tre furono i morti, 138 i feriti e oltre 400 gli arresti.

Alla vigilia della firma del trattato di Pace del febbraio del 1947 fu data, per la prima volta, in assemblee tenute a livello locale e sulla stampa, la direttiva da parte dei quadri sindacali e di partito per operai, tecnici, militanti, di trasferirsi definitivamente in Jugoslavia.

I DUE ESODI

 

In questo stesso periodo dall’Istria, e soprattutto dalla città di Pola, si stava avviando l’uscita di migliaia e migliaia d’italiani.

Ci fu il tentativo di contrapporre i due esodi in termini propagandistici, ma la direttiva del PCRG, dei Sindacati Unici e dell’UAIS di emigrare nella vicina Repubblica, incontrò l’entusiasmo tra i lavoratori che diedero vita a un’emigrazione imponente che superò le previsioni e sconvolse la strategia dello stesso partito, costringendolo a una parziale retromarcia.

 Peraltro, le partenze non venivano ostacolate dal Governo Militare Alleato.

I motivi che stavano alla base delle partenze erano diversi e intrecciati tra di loro: la volontà di contribuire in prima persona alla costruzione del socialismo in Jugoslavia; l’esito deludente delle trattative sulla questione dei confini;

la previsione di un drastico ridimensionamento delle maestranze in Cantiere [doc.5]; l’obiettiva carenza di operai qualificati e di tecnici nei Cantieri di Pola e Fiume; le violenze delle squadre nazionalistiche e neo-fasciste contro gli attivisti politici e sindacali. Infine, pesò una certa tradizione austro-ungarica che aveva sempre visto nell’Italia una realtà sociale ed economica arretrata.

L’ACCOGLIENZA IN JUGOSLAVIA

 

Inizialmente, l’accoglienza ricevuta dai lavoratori emigrati, in particolare a Fiume e a Pola, fu senz’altro positiva.

I lavoratori singoli furono alloggiati nei grandi alberghi delle due cittadine costiere, mentre alle famiglie furono assegnate delle abitazioni dignitose, spesso case lasciate vuote da coloro che si dirigevano verso l’Italia. Trovarono subito lavoro ai Cantieri Tre Maggio e al silurificio Ranković di Fiume, e ai Cantieri Scoglio Olivi di Pola. In questi primi mesi riuscirono anche a inviare ogni mese a famiglie e parenti del denaro [6].

La “Risoluzione” del Cominform (il comitato internazionale comunista, controllato dall’Urss) che sanciva l’espulsione di Tiro dall’organizzazione internazionale dei partiti comunisti del 28 giugno 1948, giunse inaspettata. Cambiò radicalmente la situazione.

Fu un vero terremoto politico: nel Territorio libero di Trieste il partito comunista, nato dopo lo scioglimento del PCRG, si divise. Il Cominform non solo lacerò il movimento comunista italiano e quello sloveno.

I rappresentati dei lavoratori monfalconesi nei Cantieri di Fiume e di Pola presero subito posizione a favore della Russia sovietica.

 Su questa decisione così rapida influì sicuramente l’adesione alle posizioni dell’Urss, propria di molti militanti comunisti; ma furono decisive anche le critiche maturate verso il partito jugoslavo, sia durante la Resistenza sia nel corso dei mesi di permanenza nei Cantieri croati, critiche che fino allora erano passate sotto silenzio.

LA SITUAZIONE SI FA PESANTE

 

Ai primi di agosto 1948, le autorità jugoslave operarono una prima, vasta retata tra gli emigrati italiani, arrestando gli esponenti più in vista del gruppo di Fiume. Dopo un breve periodo di carcere, i prigionieri furono trasferiti sotto sorveglianza su un treno nel villaggio minerario di Zenica, nella Bosnia Erzegovina.

Pare che, alla partenza del treno dalla stazione di Fiume, un gruppo di operai monfalconesi avesse cantato l’Internazionale per solidarizzare con gli internati. A Zenica gli arrestati furono completamente isolati.

La vicenda si chiuse qualche mese dopo con una fuga ben organizzata, grazie al consolato italiano di Zagabria.

Dopo i primi arresti a Fiume e a Pola, i monfalconesi decisero di creare un’organizzazione per la tutela delle famiglie degli arrestati.

Furono predisposte sottoscrizioni, ma questa iniziativa causò una seconda ondata di arresti, a catena, nel corso del 1949.

I prigionieri subirono una sorte peggiore di quella occorsa gli internati di Zenica

All’inizio del 1949, la situazione per il gruppo dei monfalconesi si fece pesantissima, con l’inasprirsi della repressione e del sospetto verso buona parte degli emigrati italiani. Il gruppo operaio si divise a causa di sospetti e delazioni: molti compagni furono ritenute spie “titine” e i sospetti divisero gli stessi gruppi familiari.

 

LA REAZIONE DEI COMUNISTI ITALIANI E LA REPRESSIONE JUGOSLAVA

 

Nello stesso tempo, in forma indipendente dalle vicende del gruppo di monfalconesi, si costituì una cellula clandestina di militanti italiani, con l’obiettivo di operare in favore del Cominform e per abbattere la Jugoslavia di Tito.

A Fiume parteciparono al gruppo anche il lombardo Alfredo Bonelli, il sardo Andrea Scano e il friulano Giovanni Pellizzari.

Reduci dalle prigioni fasciste o dal confino, o anche dalle Brigate internazionali che avevano combattuto in Spagna, intervennero pubblicamente nell’aprile del 1949 con un lancio di manifestini.

Dal 1949, gli attivisti della cellula “cominformista” di Fiume sopportarono il carcere e la deportazione nei campi di detenzione situati nelle isole, da Goli Otok (Isola Calva) all’isola di Svet Grgur (San Gregorio).

 Secondo le indagini di Giacomo Scotti, furono circa una quarantina i monfalconesi che dovettero affrontare mesi ed anni di detenzione durissima e il calvario delle torture delle prigioni  titoiste-

 

Sui prigionieri s’infieriva con lo stroj: pestaggi continui all’arrivo e sbarco nell’isola dove si era costretti a sfilare fra due lunghe ali di detenuti che dovevano colpire senza soste i nuovi arrivati; il bojkot: isolamento totale del boicottato costretto per settimane, anche mesi a lavori pesantissimi e nel silenzio più assoluto; la jazbina: caverna, spelonca con l’interruzione sistematica del sonno al punito, sepolto sotto un ammasso soffocante di coperte e bersagliato da pestaggi improvvisi.

Ma vi erano varianti e “integrazioni” come la proibizione di dissetarsi durante le lunghe ore di un massacrante lavoro, lo stare immersi nell’acqua gelida del mare per tutta la giornata a scavar sabbia e via dicendo.

Oltre alle torture fisiche c’erano i ricatti morali per indurre i prigionieri a trasformarsi in delatori dei loro compagni, a farsi confidenti dell’UDBA anche dopo il rilascio.

Andrea Scano ha lasciato una descrizione intensa della sua esperienza nell’isola di Goli Otok:

Quando sbarcammo, gli internati ci attendevano schierati su due file. Noi dovevamo passare in mezzo … Man mano che si procedeva venivamo colpiti a pugni, calci, sputi, tra urla e insulti di ogni genere … Io non ce la facevo più, la strada era in salita, ero carico della mia roba e indebolito dal carcere e dal viaggio …

Mi sembrava che la doppia fila non finisse mai …

In particolare avevo il fratello di Juretich che mi si era attaccato davanti e continuava a percuotermi sulla faccia …

Ero coperto di sangue, boccheggiavo, e invocavo basta, che la smettesse, che mi lasciasse andare avanti.

Ma lui a insistere e a gridare: sei un cominformista, vero?

Ebbene prendi, prendi, prendi ancora!..

Ogni volta che arrivava un carico dovevamo schierarci e picchiare.

 In pratica si riusciva molto a fingere, e a dare le spinte per aiutare i nuovi arrivati a percorrere più in fretta il loro calvario.

Ma c’erano sempre gli zelanti, come il fratello di Juretich, e alla fine tutti ne uscivano massacrati (…) A differenza dei campi nazisti, a Goli Otok non si uccideva.

Se vi furono dei morti, fu per disgrazia, involontariamente.

L’obiettivo era di umiliarci, fino alla distruzione della nostra identità.

Ma mentre nei campi nazisti la repressione era amministrata direttamente dalle SS, e le SS le vedevi dappertutto, a Goli Otok la repressione era amministrata dagli stessi internati cominformisti.

I titini neanche li vedevi … La fama di Goli Otok era tale che la maggioranza di coloro che vi erano inviati capitolavano prima di arrivarci: cosicché la maggioranza dei nuovi arrivati, mentre subiva le percosse passando tra le due file, inneggiava a Tito e al Partito comunista jugoslavo.

 

Dopo la morte di Stalin, il riavvicinamento tra Jugoslavia e Unione Sovietica fu percepito come un inganno.

 Il partito comunista mantenne per molto tempo il silenzio sulla vicenda e molta documentazione prodotta dai cominformisti fu distrutta.

 

IL RITORNO DEI LAVORATORI

Se la sorte dei militanti più attivi fu la detenzione nei lager di Tito, per le migliaia di lavoratori che si erano spostati tra il 1946 e il 1948 nella vicina Repubblica con la convinzione di trovare una società libera e più giusta, ci fu l’immediato rientro per sfuggire alla carcerazione, alla disoccupazione conseguente ai licenziamenti, all’isolamento.

Coloro che ritornarono non ritrovarono più il lavoro, in alcuni casi neanche la casa.

Delusi, umiliati, e sfiduciati si chiusero nel silenzio e vollero dimenticare. Altri decisero di emigrare nuovamente, diretti in altri paesi d’Europa.

Il PCI manterrà per lungo tempo il silenzio sulla vicenda, giudicando che il ritornarvi sarebbe stato dannoso per le buone relazioni con il Partito jugoslavo e negli stessi rapporti tra Italia e Jugoslavia nel momento in cui questi, dopo la morte di Stalin, segnavano un positivo disgelo. Documenti, relazioni, lettere inviate a suo tempo dagli “agenti” cominformisti, tutto fu bruciato.

 

Ma va detto anche che il PCI non abbandonò i protagonisti di queste vicende, e talora si impegnò per trovare una sistemazione dignitosa ai vari “reduci” dalla Jugoslavia, i quali non sempre dal canto loro accettarono, chiedendo piuttosto di riuscire a riflettere e rielaborare collettivamente l’esperienza drammatica che avevano vissuto.


IL CONFINE ORIENTALE

 

LE MODIFICHE TERRITORIALI DAL 1924 AL 1954


Il confine del Regno d’Italia dal 1924 al 1941


 Il confine del Regno d’Italia dal 1941 al 1943

Zona di operazioni Litorale adriatico: 1943 -1945

Operazioni militari alleate e jugoslave – aprile – maggio 1945. La corsa per Trieste

Venezia Giulia 1945-1947. Linea Morgan

Conferenza di Pace. Parigi 1945-1947. Principali proposte di nuovi confini

Alla Conferenza della Pace dopo la seconda guerra mondiale, iniziata a Parigi l’11 settembre 1946, non venne modificato il confine dell’Austria, mentre quello tra Italia e Jugoslavia subì profonde variazioni, dopo lunghe e complesse discussioni.
Le dinamiche della guerra appena conclusa condizionarono le scelte politiche, ma altrettanto pesò il retaggio storico nei rapporti tra Italia e Jugoslavia, segnati dagli effetti della prima guerra mondiale e dall’oppressione attuata dal regime fascista sugli abitanti sloveni e croati presenti nel territorio del Regno d’Italia.
Tutte le proposte presentate alla Conferenza della Pace indicarono il territorio più o meno ampio che sarebbe stato sottratto all’Italia e assegnato alla Jugoslavia; comune a tutte risultò la cessione delle città di Zara e di Fiume.
Infine fu accettata la proposta francese, ma con l'inserimento di uno stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia, denominato Territorio Libero di Trieste (TLT). L’Istria venne assegnata alla Jugoslavia (salvo la parte inclusa nel TLT).
Il Territorio Libero di Trieste non raggiunse mai una propria autonomia e indipendenza, restando affidato all’amministrazione militare anglo-americana nella parte settentrionale (Zona A del TLT, da Muggia a Duino) e jugoslava (Zona B del TLT, da Capodistria a Cittanova).
Il Trattato di Pace entrò in vigore il 10 febbraio 1947 e il Governo Militare Alleato venne a cessare di fatto il 15 settembre successivo nei territori assegnati all'Italia: provincia di Udine e parte della provincia di Gorizia.


Per il primo anniversario del 25 aprile

 

Combattenti della Guerra di Liberazione!

 

A Voi, nell'Annuale della Liberazione, torna l'animo riconoscente e memore dei cittadini.

 

Allorché tutto sembrava perduto, Voi mostraste cosa possano l'amore per la Patria e la fede nel suo avvenire.

E, con il Vostro eroismo, avete arricchito l'epopea italica di nuove gesta.

Rapidamente riordinati, i soldati di una guerra pur sempre eroicamente combattuta tornarono primi all'attacco;

i marinai continuarono a tener alta sul mare la Bandiera mai ammainata; gli aviatori ripresero con l'antico sprezzo della morte, i combattimenti nel cielo, a tutti affiancandosi con fraterna gara di patriottismo, di dedizione e di audacia, i partigiani che ben sapevano di coinvolgere nella lotta anche le loro famiglie.

Queste forze vive ed eroiche diedero alla vittoria delle potenti armi alleate un contributo ogni giorno più evidente e sicuro, ogni giorno più lealmente riconosciuto.

 

Quando un popolo in così aspro travaglio non cede di fronte alla immensità della sciagura ed alla avversità del destino, ma trova nelle fibre profonde della stirpe il coraggio per non disperare e la forza per lottare ancora, quel popolo può alzare la fronte davanti a

tutto il mondo e affermarsi degno di un migliore avvenire.

E questo l'Italia lo deve a Voi, soldati, marinai, avieri e partigiani.

La Patria vi ringrazia.

Viva l'Italia.

Roma, 25 aprile 1946

 

Umberto di Savoia

ISTITUTO DELLA REALE CASA DI SAVOIA

 

Centro studi

 

Lettera del Ministro della Guerra On. Stefano Jacini

 

IL MINISTRO DELLA GUERRA

 

Roma, 14 settembre 1945

 

Altezza Reale,

Dolente che gli impegni dei quali ho parlato stamane a V.A.R. non mi permettano di essere presente domani a Roma, rinnovo sin d’ora, a nome dell’Esercito e mio i più devoti auguri per il genetliaco di V.A.R.

Colgo con piacere questa occasione per rimettere a V.A.R. il distintivo della vittoriosa campagna di liberazione 1943-45 alla quale V.A.R. ha partecipato direttamente, insieme al primo Raggruppamento motorizzato, al Corpo Italiano di Liberazione e coi gruppi di combattimento.

 

Le truppe, che hanno visto V.A.R. sulle linee di combattimento dal Volturno a Bologna,saranno fiere di vederla fregiarsi di questo umile segno, che ricorda l’opera da essi svolta perla rinascita della Patria.

Con profondo ossequio,

IL MINISTRO

A S.A.R. Umberto di Savoia

Principe di Piemonte

Luogotenente Generale del Regno

Roma

 

 


LA GUERRA DI LIBERAZIONE

 

La Monarchia sabauda viene spesso accusata di non aver contribuito alla cosiddetta “guerra di liberazione”, cioè

alla lotta contro i nazisti e i nazi-fascisti della Repubblica Sociale Italiana. L’accusa è totalmente infondata.

Ecco una breve sintesi dei fatti che lo dimostrano.

 

Basandosi sul giuramento di fedeltà al Re e sul contenuto degli ordini diramati, lo Stato fece il possibile per reagire all'aggressione tedesca. Esso poteva contare:

 

1 - Sulle forze armate, composte da unità presenti sia all'interno sia all'esterno del territorio nazionale.

Furono moltissimi i soldati italiani, di ogni ordine e grado, che, fedeli al giuramento prestato al Re e sostenuti dalla popolazione, affrontarono viaggi lunghi e pericolosi per raggiungere i territori controllati dagli alleati ed unirsi alle formazioni regolari dell’esercito. Ricordiamo, fra gli altri, l’asso dell’aviazione silurante Carlo Emanuele Buscaglia, la M.O.V.M. Edgardo Sogno e persino l’ex Presidente della Repubblica, C.A. Ciampi, che però non riuscì ad arrivare al sud e si fermò a Scanno, in Abruzzo.

Non vanno neppure dimenticati gli ufficiali di collegamento con l’8° Armata britannica e con le altre forze alleate, né, ovviamente, i Reali Carabinieri, molti dei quali si sacrificarono generosamente nella guerra di liberazione. Basti ricordare i fatti di Fiesole, delle Valli di Lanzo e delle Alpi Apuane.

Fu proprio di una formazione comandata da un Capitano dei Reali Carabinieri, Ettore Bianco, il primo successo in combattimento contro i tedeschi, conseguito a Teramo il 25 settembre 1943.

 

La resistenza monarchica al nazismo fu la prima a sorgere, conseguenza immediata, senza soluzione di continuità, dell’esercizio del proprio dovere da parte dei militari.

 

E’ monarchico il più giovane caduto nella guerra di liberazione: il sedicenne torinese Gimmy Curreno, portaordini, che cadde gridando “viva il Re!”.

 

2 - Sulle formazioni partigiane monarchiche.

Queste unità, dette anche “autonome” perché non politicizzate, erano costituite proprio da militari che, sorpresi dall'armistizio in territorio sotto controllo tedesco e non potendo raggiungere il sud, prima rifiutarono d’arrendersi e poi si diedero alla macchia, continuando la lotta sotto forma di guerriglia armata. Ricordiamo, fra letante, la formazione piemontese costituita dai soldati della IV Armata, la Brigata “Amendola” del Col. Gancia,la Brigata “Piave”, che operava nel trevigiano, la Brigata “Scordia” di Cavarzerani in Cansiglio, le formazioni dei comandanti Longhi, Genovesi, De Prada e Lombardini, operanti in Val d’Ossola e in Val di Toce, il Reggimento “Italia libera”, che agiva in Carnia, i gruppi operanti in Lombardia e nel Veneto, il gruppo “Berta” di Tullio Benedetti e la di Bosco Martese, che agiva nel Teramano. Ma soprattutto va ricordato l’organismo militare più importante: quello di Enrico Martini Mauri, che operò nel basso Piemonte fino alla fine della guerra di liberazione.

 

Nell'ambito della trasmissione “Passpartout”, andata in onda su RaiTre il 27 dicembre 2005, Giorgio Bocca, ex partigiano e quotato esponente della cultura di sinistra, ha affermato che la resistenza non era soltanto repubblicana, ricordando le numerose formazioni partigiane monarchiche che operavano in Piemonte ed affermando che si trovavano partigiani fedeli al Re anche in “Giustizia e libertà”.

Secondo Eugenio di Rienzo, “nell’estate del 1943, dopo lo “squagliamento” militare dell’8 settembre, tutta la Marina e quel che restava dell’esercito, in Italia e fuori d’Italia, imbracciarono le armi contro Salò e Berlino in ossequio al giuramento che li legava al Monarca e non in obbedienza ai proclami dei comitati antifascisti, in quel momento ancora per lo più assenti o scarsamente presenti sulla scena politica attiva” (cfr. “Il Giornale”, 7giugno 2006).

 

 

A parere di Ugo Finetti, “la lotta armata contro i tedeschi venne iniziata dagli ufficiali legittimisti: un nervo scoperto per chi invece insiste nella letteratura classista della guerra civile, enfatizzando certi scioperi del ’43 e cancellando tutti i militari protagonisti della resistenza, ma Montezemolo a Edgardo Sogno” (cfr. “Libero”, 8 Giugno 2006).

3 - sulle organizzazioni monarchiche clandestine, come l’ “Organizzazione Franchi” di Edgardo Sogno, l’ “Organizzazione Otto” del prof. Otto Balduzzi e il “Centro Militare”, diretto in Roma dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, che coordinava tutte le azioni di resistenza nell’Italia centrale. Capo riconosciuto della resistenza romana, Montezemolo fu la vittima più illustre del massacro nazista delle Fosse Ardeatine.

E vanno ricordate anche le attività di Amedeo Guillet (già eroe della guerriglia italiana in Africa orientale) e di Giorgio Perlasca che, fingendosi ambasciatore spagnolo a Budapest, salvò, a suo rischio, circa 5.000 ebrei ungheresi.

 

4 - sul Quartier Generale di Brindisi che, alle dirette dipendenze del Re, in contatto con gli alleati e qualche volta persino in contrasto con essi, diresse e supportò tutte le attività, da quelle clandestine a quelle sui campi di battaglia. Nel sud del paese l’esercito italiano ebbe il battesimo del fuoco a fianco degli alleati nelle due battaglie di Monte Lungo. Ricostituito su impulso di Umberto di Savoia nel Primo Raggruppamento Motorizzato, il nostro esercito venne rinominato “C.I.L.” (Corpo Italiano di Liberazione) il 17 Aprile 1944, per poi riorganizzarsi su 4 divisioni (“Cremona”, “Forlì”, “Foligno” e “Legnano”) nel Settembre dello stesso anno.

Partecipò agli scontri, valorosamente, anche il Principe Ereditario Umberto. La Commissione Alleata di Controllo vietò al Principe Ereditario di assumere il comando del C.I.L. e cercò di impedirgli di partecipare alle operazioni militari. La stessa commissione vietò perentoriamente anche la partecipazione di Umberto di Savoia alla guerra partigiana. Ma fino a quando poté, il Principe Ereditario non si risparmiò. Riportiamo a questo proposito quanto scrisse il generale americano Clark, comandante della V Armata americana: “il 7 Dicembre 1943, alla vigilia dell’attacco di Monte Lungo, il Principe Umberto credette essere Suo dovere offrirsi per un volo di ricognizione

sulle linee nemiche, data la sua pericolosità ed importanza e dato che questa avrebbe salvato migliaia di vite italiane e americane, come infatti ebbe poi a verificarsi”. Per questa azione il Principe fu proposto dal generale americano Walker per un’alta decorazione militare americana: la Silver Star.

 

Umberto di Savoia fu costretto ad abbandonare l’esercito nel Giugno 1944, a causa della sua nomina a Luogotenente del Re (detto “del Regno”). Nomina imposta dagli alleati e frutto di un marchingegno giuridico escogitato da Enrico De Nicola, futuro Capo dello Stato.

L’esercito regio continuò nel suo sforzo generoso fino al termine del conflitto, liberando molte città italiane e

riscuotendo vivi elogi da tutti i comandanti alleati che lo ebbero alle dipendenze.

Fuori dalla penisola, e specialmente in Sardegna e in Corsica, nei Balcani, a Cefalonia e Corfù, in Egeo, Albania e Dalmazia, la resistenza delle forze armate italiane fu eroica. Si calcola che siano stati almeno 80.000 i soldati italiani morti a causa della lotta contro i tedeschi (fonte: Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito).

Non va dimenticata neppure la resistenza silenziosa nei lager nazisti. Furono infatti decine di migliaia i militari e i semplici monarchici che, catturati dai tedeschi e deportati in campi di concentramento, rifiutarono di collaborare con i seguaci di Hitler, sacrificando la loro libertà per non tradire il Re e, con lui, la Patria. Almeno 70.000

 

pagarono la loro fedeltà con la morte. Lo afferma Gerard Schreiber, in “I Militari Italiani internati in Germania”, (“La Lampada”, 2003).

 

Nello stesso articolo, Schreiber ricorda anche che, nel novembre 1943, il Ministero degli Affari Esteri del Terzo Reich dichiarò alla Croce Rossa Internazionale che gli italiani non erano considerati prigionieri di guerra e che ad essi non spettavano le garanzie previste per tali prigionieri dal diritto internazionale.

Secondo lo storico tedesco, la ragione principale dei maltrattamenti ai danni dei soldati italiani non fu una reazione all'armistizio,

ma derivò da una spiccata motivazione razzista).

In conclusione: fedeli al giuramento prestato al Re ed eseguendo gli ordini ricevuti, le forze fedeli alla Corona,sorrette per quanto possibile dal Quartier Generale di Brindisi, si sacrificarono generosamente nella lotta di liberazione e costituirono il maggior fattore italiano di resistenza al nazismo.


MESSAGGIO AGLI ITALIANI

 

DI S.A.R IL PRINCIPE UMBERTO DI SAVOIA

LUOGOTENENTE GENERALE DEL RE

 

Soldati di terra, di mare e dell'aria,

 

Nell'assumere la luogotenenza Generale del Regno, affidatami dal mio Augusto Genitore, il mio primo pensiero va alla Forze Armate italiane che, nelle ore dolorose attraversate dalla Patria, hanno saputo mantenersi fedeli alle loro nobili tradizioni.

 

A tutti i soldati di Italia che in Patria ed oltre mare combattono e operano a fianco dei valorosi soldati che ne sorreggono e potenziano lo sforzo, invio il mio saluto affettuoso.

Oltre le linee, a decine di migliaia, i vostri compagni hanno impugnato le armi e combattono l'oppressore, esponendo se stessi ed i propri cari ad ogni rischio ed alle più barbare rappresaglie. Nei capi di prigionia i nostri fratelli chiedono e sperano di poter nuovamente impugnare le armi.

Numerosi sono i caduti, numerosi sono i martiri immolatisi per la Patria, a loro il nostro pensiero ammirato, commosso e riconoscente e la promessa di valorizzare e di vendicarne i sacrifici.

 

Il nostro popolo ha dato l'esempio più elevato di forza morale e di capacità di ripresa, dopo una guerra non sentita e non voluta, ma pur sempre eroicamente sopportata.

Soldati di terra, di mare e dell'aria, dure prove ancora vi attendono; ma io sono sicuro che il vostro amore per la Patria, il vostro valore ed il vostro spirito di sacrificio - non mai offuscati - sapranno vincere ogni ostacolo.

Mentre a Roma sventola di nuovo il tricolore, sulla via che i martiri ed i caduti ci hanno tracciato, fraternamente legati alle truppe delle Nazioni Unite, continueremo, moltiplicando i nostri sforzi e tendendo le nostre volontà con la certezza che la Patria risorgerà

 

per riprendere in un mondo pacificato e migliore il posto che le compete come Madre di ogni progresso e ogni civiltà.

Di questa rinascita voi sarete gli artefici più meritevoli e migliori.

Viva l’Italia!

 

Umberto di Savoia

 

Da Roma, 8 giugno 1944


13 GIUGNO 1946

 

ITALIANI!

 

Nell'assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima, e la Corona poi, lo dichiarai che mi sarei

inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato.

E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum.

Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.

 

Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.

 

ITALIANI!

Mentre il Paese da poco uscito da una tragica guerra vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore ed altre lacrime siano risparmiati al popolo che ha già tanto sofferto.

Confido che la Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle glorie d'Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice della illegalità che il governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori.

Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto ella legge, e in modo che venisse dissipato ogni dubbio e ogni sospetto.

A tutti coloro che ancora conservano la fedeltà alla monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all'ingiustizia, io ricordo il mio esempio e rivolgo l'esortazione di voler evitare l'acuirsi di dissensi che minaccerebbero l'unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace.

Con l'animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove.

Rivolgo il pensiero a quanti sono caduti nel nome d'Italia e il mio saluto a tutti gli Italiani.

Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli.

Viva l'Italia.

 

UMBERTO

 

Roma, 13 giugno 1946

 

 

 


CMI: 77 ANNI FA L’ITALIA HA PERSO OLTRE CENTO COMUNI


Il CMI ricorda con commozione che, il 15 settembre 1947, oltre un centinaio di comuni italiani diventavano territorio jugoslavo, secondo quanto imposto all’Italia:

 

Abbazia. Aidussina. Albona, Antignana, Arsia, Barbana d'Istria, Bergogna, Bogliuno, Brioni Maggiore, Bucuie, Buie d'Istria, Cal di Canale, Canale, d'Isonzo, Canfanaro, Capodistria, Caporetto, Castel Dobra, Castel Iablanizza, Castelnuovo d'Istria, Cave Auremiane, Cernizza Goriziana, Cherso, Chiapovano, Circhina, Cittanova d'Istria, Clana, Comeno, Corgnale, Cossana, Crenovizza, Dignano d'Istria, Divaccia S. Canziano, Duttogliano, Elsane, Erpelle-Cosina, Fianona, Fiume, Fontana del Conte, Gargaro, Gimino, Gracova Serravalle, Grisignana, Idria, Isola d'Istria, Lagosta, Lanischie Mont'Aquila, Laurana, Lussingrande, Lussinpiccolo, Maresego, Matteria, Mattuglie, Merna, Monte di Capodistria, Montenero d'Idria, Montespino, Montona, Moschiena, Neresine, Opacchiasella, Orsera, Ossero, Parenzo, Piemonte d'Istria, Pinguente, Pirano, Pisino, Plezzo, Pola, Portole, Postumia Grotte, Primano, Ranziano, Rifembergo, Rovigno d'Istria, Rozzo, Salona d'Isonzo, Sambasso, S. Daniele del Carso, S. Giacomo in Colle, S. Martino Quisca, S. Michele Di Postumia, S. Pietro Del Carso, S. Croce di Aidussina, S. Lucia d'Isonzo, Veglia, Sanvincenti, S. Vito Di Vipacco, Senosecchia, Sesana, Sonzia, Tarnova della Selva, Temenizza, Tolmino, Tomadio, Umago, Valdarsa, Valle d'Istria, Verteneglio, Villa Decani, Villa del Nevoso, Villa Slavina, Vipacco, Visignano, Visinada, Zara e Zolla.

 

Il 9 giugno 1945 fu sottoscritto a Belgrado dai Generali Morgan e Jovanovic un accordo che prevedeva la divisione della Venezia Giulia in due zone di occupazione militare, denominate A e B ed affidate rispettivamente agli anglo-americani ed agli jugoslavi.

 

La linea divisoria, chiamata poi linea Morgan, fu tracciata in modo da lasciare al Governo Militare Alleato il controllo di Trieste, delle strade e ferrovie che da questo porto conducono all’Austria attraverso Gorizia, Caporetto, Plezzo e Tarvisio, nonché Pola.

 

La linea Morgan fu sostanzialmente una linea di demarcazione militare, in tutto simile alle linee armistiziali. Essa non intendeva prefigurare in nessun modo il nuovo confine italo- jugoslavo, ma solo garantire le vie di comunicazione alleate fra Trieste e le loro zone di occupazione in Austria ed in Baviera e tutelare gli interessi italiani nella Venezia Giulia, con particolare riguardo alle città di Gorizia, Monfalcone, Trieste e Pola, precedentemente amministrate dalla Jugoslavia.

 

 

Questa linea fu operante fino al 15 settembre 1947, quando entrò in vigore il Trattato di Pace.

Dopo tale data persistette solo il breve settore ricadente nel Territorio Libero di Trieste, quale limite fra le zone di occupazione anglo - americana e jugoslava.


SECONDA GUERRA MONDIALE 


Assolutamente! La Seconda Guerra Mondiale è un periodo storico complesso e tragico, ma fondamentale per comprendere il mondo di oggi.

L'uso di immagini può aiutare a visualizzare gli eventi e a renderli più tangibili.

La Seconda Guerra Mondiale: un conflitto globale

La Seconda Guerra Mondiale fu un conflitto mondiale che coinvolse la maggior parte delle nazioni del mondo tra il 1939 e il 1945. Fu caratterizzata da un'intensità di violenza e distruzione senza precedenti, con l'uso di nuove armi come la bomba atomica.

 

Le cause

 

Le cause della guerra furono molteplici e complesse, tra cui:

  • Il Trattato di Versailles: Imposto alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, fu considerato umiliante e contribuì alla nascita del nazismo.

 

 

 it.wikipedia.org

Trattato di Versailles

  • L'ascesa dei totalitarismi: Il nazismo in Germania e il fascismo in Italia, con le loro ideologie aggressive ed espansionistiche, furono fattori determinanti.

 

  www.britannica.com

Benito Mussolini

  • L'appeasement: La politica di "conciliazione" adottata da alcune potenze europee nei confronti della Germania nazista, nella speranza di evitare un conflitto.

Lo scoppio della guerra

La guerra scoppiò nel 1939 con l'invasione della Polonia da parte della Germania nazista. A seguire, si susseguirono una serie di eventi che coinvolsero sempre più paesi:

  • La campagna di Francia: Nel 1940, la Germania conquistò rapidamente la Francia.

 

 it.wikipedia.org

Battaglia di Francia

  • La Battaglia d'Inghilterra: La Luftwaffe tedesca lanciò una massiccia offensiva aerea contro la Gran Bretagna, ma fu respinta.

 it.wikipedia.org

Battaglia d'Inghilterra

  • L'attacco a Pearl Harbor: Nel 1941, il Giappone attaccò la base navale statunitense di Pearl Harbor, trascinando gli Stati Uniti in guerra.

  www.raicultura.it

Attacco a Pearl Harbor

 

La Shoah

Uno dei capitoli più oscuri della storia, la Shoah fu lo sterminio sistematico di circa sei milioni di ebrei da parte del regime nazista.

 

 

  www.britannica.com

Auschwitz

La Resistenza

In molti paesi occupati, si svilupparono movimenti di resistenza contro i nazisti e i loro alleati. In Italia, la Resistenza giocò un ruolo fondamentale nella liberazione del Paese.

 

  mapparesistenzatigullio.com

 

 

Partigiani italiani

La fine della guerra

La guerra terminò nel 1945 con la resa incondizionata della Germania e del Giappone. Le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki furono decisive per la sconfitta del Giappone.

 

 it.wikipedia.org

Bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki

Le conseguenze

La Seconda Guerra Mondiale provocò milioni di morti e distruzioni su vasta scala. Le sue conseguenze furono profonde e durature, segnando l'inizio della Guerra Fredda e l'istituzione delle Nazioni Unite.

Vuoi approfondire un particolare aspetto della Seconda Guerra Mondiale?

Possiamo ad esempio parlare di:

  • Fronti di guerra: Il fronte orientale, il fronte occidentale, la guerra nel Pacifico.
  • Personaggi chiave: Hitler, Churchill, Roosevelt, Stalin.
  • Armi e tecnologie: Carri armati, aerei, bombe atomiche.
  • La vita quotidiana durante la guerra: La vita nelle città bombardate, la resistenza civile, i campi di concentramento.

 

 

 

 

 

GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI DIMENTICATI DELL’8 SETTEMBRE 1943

 

In 650.000 decisero di non collaborare con i tedeschi e finirono ai lavori forzati nei lager Raccontare poco non era giusto, a raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare. Sono stato prigioniero e bon, dicevo».

Così un Internato Militare Italiano a chiusura delle sue memorie, quasi scusandosi. Poche, rassegnate parole che riassumono un disagio diffuso tra gli oltre 650 mila militari italiani che quell’8 settembre 1943 scelsero volontariamente di non continuare a combattere a fianco dei nazisti.

L’annuncio di Badoglio («Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.

 Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza») lascia nel caos un esercito che contava due milioni di uomini.

Delusi, impreparati e peggio equipaggiati. Esausti di combattere dopo le gravi sconfitte in Africa e in Russia, con la certezza di una vittoria che non sarebbe mai arrivata.

Nelle ore immediatamente successive all’Armistizio il Regio Esercito si sfalda. Inizia la Resistenza.

Per i soldati italiani catturati dai tedeschi inizia un’esperienza terribile: quella del lager.

 I nazisti non offrono terze scelte: «o con noi, o contro di noi». L’alternativa a prendere un fucile e cominciare a sparare ad angloamericani e italiani badogliani era solo quella di essere internati nei lager di Germania e Polonia. Nemmeno come prigioniero di guerra, status riconosciuto internazionalmente, ma come Internato Militare Italiano, o Imi.

Definizione coniata da Adolf Hitler in persona.

È stata questa degli Imi la forma di Resistenza più numerosa.

 Può sembrare paradossale, proprio perché non se ne parla mai. Il rifiuto a collaborare con il nuovo nemico nazista, preferendo l’Italia di Badoglio e di Brindisi a quella di Mussolini e di Salò, è un fenomeno vastissimo.

 Molti italiani possono vantare un nonno, uno zio o comunque un parente che è stato Internato Militare Italiano. Semplicemente lo ignora. Il paradosso si riassume nella citazione delle memorie dell’Imitornati dalla guerra non hanno voluto raccontare. Hanno preferito integrarsi in silenzio nella società.

Parlando della loro esperienza bellica, anche con dovizie di particolari, per tutto ciò che riguarda gli eventi prima dell’8 settembre e liquidando con poche e sofferte parole i due anni «prigioniero in Germania».

Meglio dimenticare al più presto. Assolutamente difficile che abbiano utilizzato le parole giuste: «campo di concentramento».

Non si usava. Gli Imi erano impiegati come schiavi (nelle aziende agricole come contadini, nelle fabbriche e nelle miniere come operai).

 La notte tornavano in luoghi di terrore e di morte, contrassegnati con un numero.

Senza assistenza sanitaria, senza tutele, senza dignità umana.

I nazisti, per costringerli alla resa, li facevano gelare nell’inverno tedesco e gli diminuivano il cibo.

Si soffriva la fame più nera. La memorialistica parla spesso di bucce di patate marce trovate tra la spazzatura. Significative le parole del poeta Tonino Guerra:

«Nella vita sono stato felice soprattutto quando mi hanno liberato: per la prima volta ho ammirato il volo di una farfalla senza il desiderio di mangiarla».

Gli effetti della fame si trovano anche nelle pagine del Diario di Giovannino Guareschi, animatore della vita culturale nei lager insieme, tra gli altri, a Gianrico Tedeschi: «Quando mi faccio la barba da sotto la pelle vedo il mio scheletro. Non pensavo che anche le ossa potessero dimagrire».

Il risultato fu che in circa 50 mila morirono di stenti, per le malattie, per le sevizie dei nazisti, per i bombardamenti alleati.

 

Il silenzio di questi protagonisti de «l’altra Resistenza» (come l’omonimo libro di Alessandro Natta, pubblicato da Einaudi solamente nel 1997) si è interrotto intorno alla metà degli Anni 80, con l’età della pensione degli Imi.

 Una grande occasione perduta per molti familiari, che ancora oggi non comprendono.

Gli storici hanno avuto grandi responsabilità.

 In Italia nel dopoguerra ci si è concentrati sulla memorialistica partigiana, che ha di fatto monopolizzato l’eredità della lotta di Liberazione.

Non è un caso che il primo storico a occuparsi con grande attenzione al tema degli Imi sia stato proprio un tedesco nel 1990: Gerhard Schreiber, scomparso poche settimane fa. Che coniò una definizione in tre parole: «Traditi, disprezzati, dimenticati».

 

LO DICO AL CORRIERE”

 

IL DISASTRO MORALE DELL’8 SETTEMBRE

 

Lettera del Presidente dell’Istituto della Reale Casa di Savoia

 

Caro Aldo,

con l’8 Settembre si scatenerà l’usuale serie di accuse a re Vittorio Emanuele III, reo, secondo la vulgata dominante, della «fuga» da Roma e di aver lasciato le forze armate senza ordini. La tesi contrasta con i fatti storici e con il buon senso. Carlo Azeglio Ciampi ha affermato che lasciando Roma “il Re ha salvato la continuità dello Stato”. Nel 1914, con i tedeschi a 80 km da Parigi, le autorità francesi si trasferirono a Bordeaux. Una scelta logica che nessuno si sognò, e si sogna, di criticare.

Quanto agli ordini, nel 1952, su Rivista Militare, Torsiello dimostrava che essi c’erano ed erano chiari.

A distanza di 75 anni non è ora di aprire le porte alla verità?

Alberto Casirati, Bergamo

Caro Casirati,

In effetti Vittorio Emanuele III non fu certo l’unico sovrano di un Paese occupato dai nazisti a lasciare la capitale; né si vede quale vantaggio sarebbe venuto all’Italia se il re si fosse lasciato catturare e forse uccidere (come accadde a sua figlia Mafalda, morta a Buchenwald).

Resta il fatto che l’8 settembre fu un disastro materiale e morale. Avevamo perso la guerra contro gli angloamericani; riuscimmo a perderne un’altra in pochi giorni anche contro i tedeschi. Il re, Badoglio e la casta militare uscita a pezzi dalla sconfitta mostrarono tutta la loro inadeguatezza; e dall’altra parte i vincitori mostrarono di non fidarsi degli italiani (con qualche ragione), e non seppero approfittare della situazione per prendere il controllo almeno di Roma.

Con un po’ più di perizia da parte italiana e da parte alleata si sarebbero evitati nove mesi di durissimi combattimenti sulla linea Gustav, oltre ai drammi dell’occupazione tedesca.

Si è discusso a lungo se l’8 settembre sia stata la morte della patria o l’inizio della sua rinascita, con la Resistenza dei militari, dei partigiani, dei civili, degli internati in Germania, come sosteneva 

CARLO AZEGLIO CIAMPI.

 

Un dato mi colpisce: il compiacimento e l’autolesionismo con cui continuiamo a darci dei “traditori” e a parlare di “tradimento” verso i tedeschi. La guerra era perduta. La Sicilia già occupata. Roma sotto i bombardamenti, che da anni flagellavano il Nord.

Cosa dovevamo fare? Continuare a combattere accanto a Hitler fino alla totale distruzione del Paese?

Affiancare i tedeschi sino allo sterminio totale degli ebrei italiani? (Furono fascisti italiani, purtroppo, ad avviare gli ebrei veneziani ai lager, portando via pure i vecchi dall’ospizio e i bambini dall’asilo, dopo che i nazisti avevano razziato il ghetto di Roma).

Semmai l’errore - e il crimine - era stato stringere l’alleanza con Hitler, e dichiarare guerra a Francia, Gran Bretagna, e poi pure a Stati Uniti e Unione Sovietica. Eppure c’è chi raffigura ancora il Duce come

uno statista lungimirante.

Aldo Cazzullo

 

 

 

8 SETTEMBRE 1943: PER AMOR DI VERITÀ

 

Con la data dell’8 settembre torneranno ad affacciarsi sulla ribalta degli organi d’informazione“allineati” con una certa ideologia le tesi, un po’ riadattate e ripulite forse ma nella sostanza invariate, della propaganda nazi-fascista del 1943.

Accuseranno Re Vittorio Emanuele III della disfatta militare, di una fantomatica “fuga” da Roma e di tutta un’altra serie di colpe che i fatti storici documentati hanno già ampiamente dimostrato come inesistenti.

Invece d’addentrarci in una minuziosa dinamica dei fatti di allora, che porterebbe a tediare il lettore con pagine e pagine di testo, preferiamo dare

voce a chi, dotato di un minimo di consapevolezza storica e di buon senso e non accecato dalle ideologie, seppur non certo sostenitore di Casa Savoia, ha saputo guardare alla verità storica con maggiore obiettività ed onestà intellettuale.

Carlo Azeglio Ciampi, già Capo dello Stato, ha affermato che così facendo “il Re ha salvato la continuità dello Stato”. Infatti, il governo italiano colmò l’incombente vuoto istituzionale, imponendosi agli alleati quale unico interlocutorelegittimo.

Dello stesso parere anche il marxista prof. Ernesto Ragionieri (cfr. la sua “Storia d’Italia”, edita da Einaudi).

Sempre Ciampi, in un’intervista al “Corriere della Sera” del 15 settembre 2008, affermò: "L’ho predicato infinite volte: l’8 settembre fu il momento in cui l’idea di Patria si riaffermò nelle coscienze”.

L’Ambasciatore Sergio Romano ha scritto:

“debbo chiedermi cosa sarebbe successo se (il Re - ndr) fosse rimasto nella capitale e fosse caduto, com’era probabile, nelle mani dei tedeschi.

Vi sarebbero state nei mesi seguenti un’Italia fascista governata da Mussolini e un’Italia occupata dagli alleati, priva di qualsiasi governo nazionale.

La fuga, fra tante sventure, ebbe almeno l’effetto di conservare allo Stato un

territorio su cui sventolava la bandiera nazionale. Non è poco” (da: “Corriere della Sera”, 23/06/2006).

Maturato il suo pensiero, il 6 maggio 2010, sempre sul “Corriere della Sera”, Romano scrisse che la decisione del trasferimento a Brindisi “fu presa a freddo e rispondeva in quel momento a un calcolo strategico: sottrarre il vertice dello Stato ai tedeschi, portarlo in una parte dell'Italia presidiata dagli Alleati (vale a dire da coloro che avevano firmato con noi un armistizio e avevano in tal modo riconosciuto l'esistenza dello Stato), salvare in un luogo sicuro le istituzioni nazionali, assicurare, sia pure con tutte le servitù dell'occupazione, la continuità della nazione. (...)

Vittorio Emanuele fece bene ad andarsene”.

Lo storico di sinistra Lucio Villari, in un articolo di fondo pubblicato sul Corriere della Sera del 9 Settembre 2001, scrisse: “Sono, in proposito, assolutamente convinto che fu la salvezza dell’Italia che il Re, il governo e parte dello stato maggiore abbiano evitato di essere “afferrati” dalla gendarmeria tedesca e che il trasferimento (il termine “fuga” è, com’è noto, di matrice fascista e riscosse e riscuote però grande successo a sinistra) a Brindisi gettò, con il Regno del Sud, il primo seme dello stato democratico e antifascista ed evitò la terra bruciata prevista, come avverrà in Germania,

dagli alleati”.

Secondo il Maresciallo Albert Kesserling, comandante in capo delle forze armate tedesche in Italia in quel periodo, la Monarchia aveva salvato l’unità d’Italia partendo da Roma ed aveva preservato Roma dal saccheggio lasciandovi un membro di Casa Savoia, il Conte Calvi di Bergolo (“Roma nazista - 1937 / 1943”,di Eugen Dollmann), consorte di S.A.R. la Principessa Reale Iolanda di Savoia.

 

Il Generale Frido von Senger und Etterlin, nel suo “Guerra in Europa”, afferma: «Dal punto di vista storico, prescindendo da qualsiasi risentimento dell’alleato, nella Seconda guerra mondiale Vittorio Emanuele III, per il fatto di aver posto tempestivamente fine alla guerra, ha reso al suo popolo un servizio altrettanto grande della resistenza a oltranza da lui propugnata dopo Caporetto».

Non è tutto. Von Senger giustifica il comportamento dell’Italia sostenendo che con un regime come quello nazista qualsiasi soluzione concordata sarebbe stata impossibile.

Concludiamo ricordando che:

- non è vero che le nostre forze armate furono lasciate senza ordini (cfr. Torsiello, in “Rivista Militare”, 3 marzo 1952), anche se non tutti scelsero di eseguirli.

- in ogni monarchia, così come in ogni repubblica, dovere principale delle autorità istituzionali è tutelare la continuità dello Stato. Nel 1914, quando i tedeschi erano a 80 km da Parigi, le autorità istituzionali della repubblica francese lasciarono la capitale (tra l’altro ben più difendibile di Roma nel 1943!) per raggiungereBordeaux. Fecero ciò che dovevano fare.

Esattamente come Re Vittorio Emanuele III, che lasciò Roma per raggiungere Brindisi.

Dr. Alberto Casirati

Presidente

Istituto della Reale Casa di Savoia

www.ircs.it

 

 


30 SETTEMBRE 1920: RE VITTORIO EMANUELE III
ATTRIBUISCE ALL’AVIAZIONE MARITTIMA LA DENOMINAZIONE 
“FORZA AEREA DELLA REGIA MARINA
CONCEDENDOLE L'USO DELLA BANDIERA DI GUERRA

Le “Ali” sul Mare - L'aviazione della Règia Marina



L'interessamento dello Stato Maggiore della Règia Marina d'Italia, ad una componente aerea, nasce con la nascita dei vari prototipi di "Macchine volanti" dei primi del XX secolo.

I palloni frenati prima ed i dirigibili, in seguito, rivoluzionarono persino la strategia militare, tanto che persino gli eserciti se ne servirono nei campi di battaglia. In questa fase pioneristica emerse la figura del Sottotenente di Vascello Mario Calderara, che nel 1909 prese alcune lezioni di volo da Wilbur Wright, in visita in Italia, conseguendo sul campo il brevetto di pilota ed ottenendo nel 1910 il comando della prima scuola di volo italiana ubicata all’aeroporto romano di Centocelle.

Altra figura emergente di questa fase pioneristica fu quella del Capitano del Genio Navale Alessandro Guidoni il cui nome è legato anche ad una serie di progetti, in particolare modo quello delle “Navi Hangar”.

Con l'evolversi dello sviluppo il mezzo aereo incominciò a diventare una realtà importante ed indispensabile, tanto che il 20 Giugno del 1913 con Decreto Ministeriale viene costituito il “Servizio Aeronautico della Regia Marina” il Capo di Stato Maggiore eletto fu l' ammiraglio Paolo Thaon di Revel, grande sostenitore del mezzo aereo e sostenitore dello sviluppo del settore, si presentò l'esigenza di poter disporre di unità navali appositamente attrezzate al fine di usufrui-re al meglio delle potenzialità dei velivoli.

Per questo motivo la Regia Marina decise di trasformare l'incrociatore protetto Elba in nave appoggio idrovolanti, con la rimozione dell’intero armamento principale e la costruzione di ricoveri, per alloggiare 3/4 idrovolanti del tipo Curtiss “Flying Boat”, da calare in mare per il decollo e recuperare al termine del volo tramite dei verricelli e la cui dotazione aerea era completata da un pallone frenato a bordo.

A questa unità ne venne affiancata un'altra, la nave mercantile Quarto, che venne acquistata della Regia Marina e ribattezzata Europa, i cui lavori di trasformazione vennero realizzati in pochi all'Arsenale di La Spezia con la nave che venne consegnata alla Regia Marina in prossimità dello scoppio del primo conflitto mondiale.

Il Curtiss “Flyng Boat”, derivazione del precedente modello del 1912, entrò a far parte, agli inizi del 1914 della componente di volo oltre che della corazzata Dante Alighieri, degli incrociatori Amalfi, San Marco e dalla nave appoggio idrovolanti Elba, allo scoppio della I Guerra mondiale, la Règia Marina aveva in organico una componente aeronavale di tutto rispetto, il Ministero della Guerra la voleva alle sue dirette dipendenze, con un'autonomia d'azione limitata e subordinata alle sue dipendenze, venne proposto un Regio Decreto che sanciva questa peculiarità della specialità, ma l'ammiraglio Thaon di Revel con fermezza si oppose a tale decisione rassegnando le dimissioni da Capo di Stato Maggiore, il ministero dovette cedere il passo e ritornare sulle proprie decisioni onde evitare la perdita di un grande comandante prima e di un “Capo carismatico” dopo accettando le richieste che il Servizio Aeronautico della Règia Marina fosse direttamente alle dipendenze della Règia Marina stessa.

Thaon de Revel portò il servizio Aeronautico ad un livello di tutto rispetto, per dare un ricovero ai dirigibili che avevano il compito di avvistare i sommergibili che tentavano di transitare attraverso lo stretto di Messina venne anche costruito l'hangar dirigibili di Augusta che tuttavia venne ultimato nel 1920 quando il conflitto era finito. Durante il conflitto il Servizio Aeronautico perse 121 uomini ottenendo 405 decorazioni, tra cui due medaglia d'oro al valor militare, i Tenenti di Vascello piloti Giuseppe Garassini Garbarino ed Euge­nio Casagrande. Al termine del conflitto, nel 1920, lo stesso Re Vittorio Emanuele III attribuì ufficial-mente al Servizio Aeronautico della Marina la denominazione di “Forza Aerea della Regia Marina” concedendole “la Bandiera di Guerra” che viene subito insignita della Medaglia d’Argento al Valor Mili-tare “per l’intensa attività svolta con onore durante tutto il corso della Prima Guerra Mondiale”.

Nel 1923 la nave da trasporto per le Ferrovie dello Stato Città di Messina, appena varata venne incorpo-rata nella Regia Marina per fornire supporto logistico agli idrovolanti in dotazione alle navi da battaglia ed agli incrociatori, con compiti di nave officina per l'assistenza e riparazione degli aerei e nel contempo per trasportarli presso le squadre navali cui fornire supporto. I lavori di trasformazione effettuati presso il Regio Arsenale della Spezia iniziarono il 24 gennaio 1925 e la nave ribattezzata Giuseppe Miraglia entrò in servizio il 1º novembre 1927.

Nel 1923 veniva costituita la Regia Aeronautica come terza forza armata assieme alla Regia Marina, ma l'autonomia del servizio aereo ne risentì parecchio, tutti gli aeroplani andarono sotto le dipendenze dell'Aviazione, neanche se i piloti erano della Marina dipendeva da un comando Generale della Regia Aeronautica.

In questo periodo le varie unità si rafforzarono in modo da renderle sempre efficienti ed operative in condizioni “ognitempo” la tecnologia aveva fatto passi da gigante entrarono in scena macchine sempre all'avanguardia per quel periodo: dopo una serie di prove con vari vari idrovolanti, o progettati per uso civile come i Macchi M.18, o i più specifici come i Piaggio P.6 e i CANT 25, la scelta negli anni trenta venne adottato il più moderno idrovolante da ricognizione marittima IMAM Ro.43, biplano biposto a galleggiante centrale in legno, che pur non essendo dotato di brillanti doti marine raggiungeva i 300 km/h e con circa 1 000 km di autonomia, che divenne la dotazione standard per tutte le maggiori unità della Marina e le cui ali potevano essere ripiegate all'indietro per permettere il ricovero degli aerei sulle navi.

Il Macchi M.18 era un idrobombardiere biplano a scafo centrale prodotto dall'Aeronautica Macchi negli anni ‘20, Originariamente progettato come idrovolante di linea, l'M.18 entro in produzione come bombardiere prima di essere offerto sul mercato civile.

Il prototipo venne portato in volo per la prima volta nel 1920, dotato di un motore 6 cilindri in linea raffreddato ad acqua Isotta Fraschini V.4B che sviluppa-va 150 CV (110 kW).

In seguito venne sostituito con un più potente Isotta Fraschini V.6 da 250 CV (187 kW) per poi adottare il definitivo e più moderno Asso 200. Vennero prodotte due versioni militari, la prima con una configurazione standard la seconda, denominata M.18AR, dotata di ali ripiegabili.

Piaggio P.6 era un idrovolante biplano da ricognizione marittima imbarcato catapultabile prodotto in numero limitato dalla Piaggio & C.

Il progetto del P.6 viene realizzato per soddisfare un requisito della Regia Marina per la fornitura di un idrovolante biposto catapultabile che l'azienda propone in due diverse configurazioni.

Il primo, denominato P.6bis, era un piccolo biplano a scafo centrale spinto da un motore Isotta Fraschini V.6 da 260 CV (194 kW) in configurazione spingente.

Il secondo progetto, denominato P.6, era un idrovolante dotato di un grande galleggiante centrale più due galleggianti stabilizzatori posti sotto le ali e motorizzato con un Fiat A.20 da 380 CV (280 kW) montato sul muso.

Entrambi i velivoli hanno avuto la stessa ala biplana a struttura rigida con rinforzi ed entrambi erano armati con una sola mitragliatrice difensiva, il P.6bis posizionata sulla prua dello scafo ed il P.6 nella parte posteriore della cabina di pilotaggio.

Nel 1928 venne prodotto il P.6ter, sviluppato sulla base del P.6 a galleggiante centrale adottando una versione potenziata del Fiat A.20 capace di 410 CV (302 kW).

Venne avviata un produzione di 15 esemplari utilizzati sulle navi da battaglia ed alcuni incrociatori della Regia Marina.

Rimanevano molto complesse poi le operazioni di reimbarco a fine missione che dovevano essere eseguite a nave ferma, e compatibilmente alle condizioni meteorologiche, tramite l'imbragatura del velivolo che veniva issato sul ponte con una gru, aumentando così però la vulnerabilità dell'unità navale impegnata all'operazione di recupero, tanto che alla fine si preferì che i velivoli rientrassero in un idroscalo costiero per effettuare successivamente il reimbarco con la nave in porto, consentendo in pratica, per ogni singola navigazione, l'utilizzo di ogni velivolo imbarcato per un'unica missione.

Con questi mezzi la copertura aerea si dimostrò inadeguata se posta in contrapposizione a quella della Mediterranean Fleet della Royal Navy che l'11 Novembre 1940, nella cosiddetta notte di Taranto con gli aerosiluranti decol-lati dalla portaerei Illustrious mise fuori combattimento a Taranto le corazzate Littorio, Duilio e Cavour. Alcuni mesi dopo nel marzo 1941, nella battaglia di Capo Matapan, altri aerosiluranti, decollati dalla portaerei Formidable danneggiarono la corazzata Vittorio Veneto che riuscì a rientrare a Taranto e sopratutto annientarono l'intera Iª Divisione Incrociatori, affondarono gli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Pola e i cacciatorpediniere della scorta Carducci e Alfieri, causando la morte di 2023 marinai, di cui 783 del Zara, 813 del Pola, 211 dell'Alfieri e 169 del Carducci.

Quando, dopo la scontro di Capo Matapan, l'assenza di portaerei dimostrò incidere pesantemente sulle sorti della Squadra Navale in mare aperto, si cerco di correre ai ripari predisponendo i transatlantici Roma e Augustus alla trasformazione in portaerei sulla base di studi preliminari effettuati sin dal 1936, che vennero ribattezzati rispettivamente Aquila e Sparviero.

Nell'attesa della trasformazione in portaerei dei due transatlantici venne deciso di affiancare all'idrovolante Ro 43 un caccia terrestre catapultabile.

La scelta cadde sul Reggiane Re.2000, dotato di buona velocità (530 km/h) e discreta autonomia, da cui venne sviluppata la versione Catapultabile, per l’impiego imbarcato sulle unità della Regia Marina.

Le prima prove vennero effettuate sulla nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia, pilota Giulio Reiner, da una squadriglia appositamente costituita, la Squadriglia di Riserva Aerea delle FF.NN.BB. (Forze Navali da Battaglia) il cui simbolo era una paperella posta sulla deriva di coda, ed alcuni di questi velivoli vennero imbarcati sulle corazzate Roma, Vittorio Veneto e Littorio. Nell'aprile 1943 la squadri-glia venne sciolta per formare il Gruppo di Riserva Aerea delle FF.NN.BB., su tre squadriglie.

I due prototipi ebbero le MM 471 e 485, mentre gli 8 esemplari di serie le MM dalla 8281 alla 8288.

Dopo l’Armistizio di Cassibile, alcuni Re.2000 ricevettero le insegne della aeronautica cobelligerante. All'armistizio dell'8 settembre 1943, gli idrovolanti Ro 43 imbarcati erano 19 mentre 20 erano in forza alle Squadriglie Forze Navali, mentre i velivoli Re 2000 "Catapultabile" erano 6, di cui due sulla corazzata Roma e uno ciascuno su Italia (ex Littorio) e Vittorio Veneto.

La realizzazione delle portaerei Aquila e Sparviero avviata nei Cantieri Ansaldo di Sestri Ponente preventivata in 8-9 mesi di lavori, si protrasse sino alla prematura sospensione decisa nel giugno del 1943 con le due unità rispettivamente complete al 90% e al 40%, e la portaerei Aquila che aveva già effettuato le prime prove statiche dell'apparato motore.

Nessuna delle due vide però l'impiego operativo, e l'Aquila venne affondata da sommozzatori dei reparti speciali italiani cobelligeranti per evitare che venisse affondata a bloccare l'imboccatura del porto di Genova.

Oggi la Regia Marina non esiste più, smantellata e afflitta da una guerra che fece decine di migliaia di vittime tra le sue file, oggi si chiama Marina Militare Italiana, è formata da componenti aeronavali sia ad ala rotante (elicotteri) sia ad ala fissa (Caccia AV-8 BII plus) i piloti di oggi, hanno lo stesso entusiasmo e lo stesso coraggio dei loro antenati, quello di affrontare il loro essere “Marinai volanti”, uomini che sono testimoni e conservatori di quelle tradizioni che navigano sia in mare che in cielo.


1942 - EL ALAMEIN – 2024


LA BATTAGLIA DI EL ALAMEIN: UN PUNTO DI SVOLTA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

La battaglia di El Alamein fu uno degli scontri più cruciali della campagna d'Africa settentrionale durante la Seconda Guerra Mondiale.

Combattuta tra il 23 ottobre e il 5 novembre 1942, vide contrapporsi le forze dell'Asse (Italia e Germania) guidate dal celebre generale Erwin Rommel, contro le forze britanniche dell'8ª Armata.

 

 

 

La Battaglia di El Alamein si riferisce a due scontri cruciali della Seconda Guerra Mondiale, combattuti nel 1942 in Egitto tra le forze dell'Asse (Germania e Italia) e le forze Alleate (principalmente britanniche, australiane, neozelandesi, sudafricane e indiane).

 

La Battaglia di El Alamein segnò, insieme a quella di Stalingrado, una vera svolta per l'esito della Seconda Guerra Mondiale, mentre sotto il profilo politico-strategico fu importante in quanto pose fine per sempre all' incombente minaccia di occupazione dell'Alto Egitto e alla penetrazione delle armate italo-tedesche in Medio Oriente per l'acquisizione dei ricchi giacimenti di petrolio di quei Paesi.

 

Settant’otto anni fa, ad El Alamein, un centinaio di chilometri ad ovest del Nilo, fu combattuta la più grande battaglia in terra d'Africa della Seconda Guerra Mondiale.

 

Il fronte, su un terreno completamente desertico, era compreso fra il Golfo degli Arabi e il ciglio della grande depressione di El Qattara, per uno sviluppo di circa 60 chilometri.

 

Su quel tratto di fronte, nei mesi di settembre e ottobre 1942, era schierata a difesa l'Armata italo - tedesca  non più in grado di avanzare verso oriente per le gravi perdite subite e per aver trovata sulla loro direttrice di marcia una fortissima posizione difensiva inglese.

 

Così avvenne che mentre gli italo - tedeschi si organizzavano a difesa il generale Montgomery, subentrato il 15 agosto 1942 al generale Auchinleck, organizzava l’attacco.

 

Il 23 ottobre 1942 le forze britanniche lanciarono l'offensiva contro l'Armata italo - tedesca 

 

 

 

COMPOSIZIONE ARMATA ITALO–TEDESCA

L’Armata Italiana era formata da tre Corpi d’Armata, due di Fanteria (X e XXI) e uno corazzato (XX) per complessive cinque Divisioni di Fanteria (17a Pavia, 25a Bologna, 27a Brescia, 102a Trento, 185a Folgore, due corazzate Ariete e Littorio, una motorizzata Trieste, reparti logistici e reparti aerei di supporto.

 

 

L’Afrika Corps era costituito su due divisioni corazzate la 15a e 21a , la 90a motocorazzata leggera, la 164a divisione di fanteria, la Brigata paracadutisti “Ramcke”, reparti di supporto e da pochi gruppi aerei di Stuka e Ju88 della Luftwaffe.

 Prima Battaglia di El Alamein (1-27 luglio 1942)

Questo scontro terminò in una situazione di stallo, ma fu significativo perché fermò l'avanzata delle forze dell'Asse verso il Canale di Suez.

 

 

Seconda Battaglia di El Alamein (23 ottobre - 11 novembre 1942)

 

Questa battaglia fu decisiva e segnò una svolta nella campagna del Nord Africa. 

 

 

Questi scontri sono ricordati per la loro importanza strategica e per il ruolo cruciale che ebbero nel determinare l'esito della guerra nel teatro nordafricano.


SACRARIO MILITARE ITALIANO DI EL ALAMEIN 

Il Sacrario militare italiano di El Alamein si trova in Egitto al km 120 della strada litoranea che congiunge Alessandria con Marsa Matruh, a circa 14 km a ovest di El Alamein e 240 km a nord del Cairo.

Fu eretto tra il 1954 ed il 1958 dall’Italia a ricordo dei caduti italiani della prima (1-27 luglio) e seconda battaglia (23 ottobre - 4 novembre) di El Alamein del 1942.

 

Il progetto e la realizzazione dell'opera furono affidate al Maggiore Conte Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo, che era stato comandante del 31o Battaglione Guastatori del Genio impiegato sul fronte di El Alamein, riuscendo a sfuggire all'accerchiamento con il suo battaglione, unico reparto superstite del X Corpo d'armata italiano; per tale risultato venne decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare.

Nel 2002 le fu concessa la Medaglia d’Oro al Merito dell’Esercito “alla memoria”.

 

Il sacrario è formato da tre blocchi di costruzioni: il sacrario propriamente detto; il complesso di edifici posti lungola strada litoranea; la base italiana di Quota 33. E’costituito da una torre ottagonale alta circa 30 metri che va leggermente stringendosi verso l'alto.

 

Alla base della torre vi èuna galleria semicircolare, illuminata da cinque finestroni che guardano verso il Mediterraneo, al centro della quale si trova l’altare. Ai lati est ed ovest della galleria, sporgenti rispetto alla torre, si trovano due padiglioni all'interno dei quali sono custoditi i resti di circa 5.200 soldati italiani caduti e ritrovati in vari cimiteri nel deserto circostante.

 

In ogni nicchia contenente le spoglie è scritto il nome e grado del caduto, oppure IGNOTO quando sconosciuto. Circa la metà dei loculi recano la scritta IGNOTO.

 

Un busto ricorda il Colonnello Caccia Dominioni, ideatore del progetto.

 

Gli edifici situati lungo la strada sono costituiti dal porticato d'ingresso al sacrario con la corte d'onore alla cui sinistra si trova il cimitero degli Ascari libici, con le spoglie di 232 Caduti.

 

La base di Quota 33 si trova su una collinetta ad ovest della torre del sacrario, alla distanza di circa 500 metri dalla torre stessa.

 

La costruzione fu eretta nel 1948 (completata nel 1953) sul punto, detto appunto “Quota 33” ove il 10 luglio 1942 fu attaccato e distrutto dagli australiani dell’8a Armata britannica il 52° Gruppo cannoni da 152/37.

El Alamein, simbolo della resistenza del Regio Esercito in Africa, ebbe un ruolo di storica importanza nel corso della Seconda guerra mondiale.

 

Oltre al sacrario italiano c'è il Cimitero del Commonwealth, con le tombe dei soldati dei vari paesi che hanno combattuto con i britannici.

 

Vi sono monumenti che commemorano le forze australiane, sudafricane, greche e della Nuova Zelanda.

Come molti altri simili cimiteri, esso consiste in file parallele di lapidi, ciascuna con inciso l'emblema dell'unità del soldato defunto, il suo nome e un epitaffio. Ovunque vi è un “milite ignoto” (e sono tanti) vi è la scritta “Conosciuto da Dio”.

 

Il Sacrario Tedesco, costruito nello stile di una fortezza medioevale, è un ossario contenente i resti mortali di 4.200 soldati tedeschi.

 

 

El Alamein ospita anche un museo locale della Seconda Guerra Mondiale che espone diversi tipi di carri armati, blindati, cannoni ed aerei impiegati nelle battaglie del Nordafrica dai diversi eserciti combattenti.


Sacrario militare italiano di El Alamein