GRANDE GUERRA
LE TRINCEE DEL CARSO SUI MONTI
COSICH E DEBELI
Partendo da Monfalcone una passeggiata a piedi su comode strade sterrate penetra nella Riserva naturale regionale dei laghi di Doberdò e Pietrarossa ed esplora i campi di battaglia del Carso.
L’obiettivo è la trincea austroungarica che si allunga sulla cresta dei monti Cosich (m. 112) e Debeli (m.139). Dal centro di Monfalcone si valica la ferrovia per il sottopasso di Salita Mocenigo e si entra nel Parco tematico della Grande Guerra.
Si prosegue sulla sterrata in salita di fronte (nord) e si scende al di là della prima linea di colli raggiungendo l’autostrada. Un sottopasso e un breve tratto successivo portano al Lago di Pietrarossa e all’interessante Centro di visita della Riserva.(segnavia 81)
Tornati indietro di pochi passi s’imbocca la sterrata in salita (segnavia 82) che tra opere di guerra conduce alla sella tra i monti Cosich e Debeli, nodo di sentieri.
A destra una strada sterrata sale lungamente lungo la cresta del Debeli, incrociando la trincea e toccando la panoramica sommità nei pressi di grandi tralicci dell’alta tensione. Tornati alla sella si sale al monte Cosich lungo un sentierino nel bosco che costeggia la trincea. La cima ospita altre opere di guerra e si affaccia sul campo di battaglia.
Risulta chiara la difficoltà delle truppe italiane che dopo lo sbarco a Monfalcone avevano occupato e fortificato la prima linea di colli.
Per attaccare la linea trincerata Cosich-Debeli gli itaiani dovevano prima scendere nella valletta acquitrinosa di Pietrarossa (dove oggi passa l’autostrada) e risalire il pendio sotto il costante fuoco avversario. Scendendo lungo la cresta ovest si tocca un cippo senza nome e si ritorna alla sella lungo la sterrata che aggira da nord il Cosich.
Dalla sella si torna a Monfalcone sulla via dell’andata.
Dell’escursione sulle colline del carso monfalconese, Arupacupa (Quota 144 m.), Cosich 112 m. e Debeli 139 m. Alle spalle della cittadina di Monfalcone (GO), si trova una lunga dorsale di basse alture, ricoperte da una folta vegetazione, che separano il Golfo di Trieste dal brullo tavolato del Carso di Doberdò.
Tutta la zona fu aspramente contesa durante la Prima Guerra Mondiale 1915-18 ed in particolare modo nel periodo settembre-novembre 1916, quando infuriarono la Settima, l’Ottava e la Nona battaglia sul fronte isontino.
Oggi la maggior parte delle trincee e dei manufatti bellici sono nascosti dalla vegetazione, soltanto i principali monumenti commemorativi sono stati liberati dall'intricata vegetazione della landa carsica e si possono visitare lungo un itinerario storico ad anello.
Una larga carrareccia, consente di salire il versante nord della collina, dappertutto resti di trincee e camminamenti nascosti dalla vegetazione. Raggiunto un bel spiazzo verde ben delimitato, inizia una breve scalinata con gradini scavati nella roccia, che conduce alla sommità del colle Arupacupa o Quota 144 m. (Gorjupa Kupa).
Bella vista a 360° gradi, dal mare Adriatico al pianoro di Doberdò, dalle alture sopra il Vallone fino al lontano monte Ermada.
Sull'ampia cima piatta si trovano i monumenti, che ricordano il sacrificio dei reparti italiani per la conquista della vetta, i Bersaglieri ciclisti del III e XI Batt. al comando del tenente colonnello Paride Razzini e dei fanti dei Reggimenti 131° e 132°.
Superata la sommità si scende dal versante opposto della salita con un ripido sentierino che consente di tagliare il versante meridionale della collina e di raccordarsi con una carrareccia che prosegue la discesa verso un ampio vallone. Lungo la discesa si visita un complesso di profonde e lunghe caverne, costruite durante la Grande Guerra e successivamente riutilizzate nel periodo della “Guerra Fredda”.
l termine della Seconda Guerra Mondiale nel 1945, l'Europa entrò nel clima della Guerra Fredda, a seguito della divisione del continente in due parti, a occidente i membri della NATO con gli Stati Uniti d'America, a oriente l'Unione Sovietica e gli alleati del Patto di Varsavia.
Il nuovo confine tra questi due schieramenti, tra l’Italia e la Jugoslavia fino al 1991 (oggi Slovenia), correva di nuovo lungo le stesse terre coinvolte nella Prima Guerra Mondiale, il Carso di Doberdò e quello di Comeno. Negli anni Cinquanta/Sessanta l’esercito italiano, per il timore di una invasione da parte dell'esercito jugoslavo e sovietico, riutilizzò, ampliando e fortificando, buona parte del sistema di caverne e gallerie della Grande Guerra. Ancora oggi, sono diverse le testimonianze di questi manufatti bellici che si possono osservare sui versanti dei colli Quota 144 e Debeli: torrette di postazioni “osservatorio” mimetizzati con le pietre carsiche, piccoli coni metalicci (prese d’aria) che rivelano la presenza di bunker sotterranei, ai quali si può accedere con ripide scale, nascoste e protette, da pesanti porte di ferro (oggi spesso aperte)..
NOTE STORICHE della Grande Guerra sui colli "Quota 144", Cosich e Debeli.
Coloro che raggiungono la città di Trieste con l'autostrada A4, dopo un centinaio di chilometri di piatta pianura, entrano nella zona carsica e si trovano ad affrontare alcuni saliscendi con lunghe curve tra due dorsali collinose.
Pochi sanno che quelle anonime alture sono state il teatro di cruenti scontri durante la Prima Guerra Mondiale. Oggi, soltanto la lettura dei diari del tempo, possono offrirci una minima immagine delle sofferenze dei combattenti su questi dolci colli. Da "Il ritorno sul Carso" L.Bartolini:
"Bisognava vederli i soldati che tornavano da quota 144! Se uno avesse fatto una raccolta di Cristi, i più magri che gli antiquari vanno a scovare per le vecchie sacrestie ... e li avesse vestiti di sbrindellato grigio verde, sporco di terra rossastra, avrebbe resa, al vero, la scena dei fanti a riposo."
Dopo la Sesta Battaglia d’Isonzo (6-17 agosto 1916), i soldati italiani iniziarono la conquista del Carso di Comeno cercando di avanzare verso la roccaforte dell’Ermada.
Era questo il fondamentale caposaldo a difesa della città di Trieste e si trovava dietro la prima linea difensiva austro-ungarica, la quale si snodava dalla quota 208 sopra il Vallone fino alla quota 144 sopra Iamiano.
Il 16 settembre 1916 (VIIª Battaglia dell’Isonzo) le truppe italiane conquistarono la Quota 144, per merito dei fanti della Brigata Cremona assieme ai bersaglieri ciclisti appiedati del Genova Cavalleria.
Nelle giornate successive difesero la vetta dai contrattacchi austro-ungarici, ma non riuscirono a sfruttare il successo per proseguire nell’offensiva. Infatti le truppe austriache predisposero un complesso sistema difensivo che scendeva dalle pendici di Quota 144 (la cima era in mano italiana) fino al paese di Iamiano.
Postazioni di mitragliatrici, linee di reticolati, camminamenti scavati nella roccia, comandi e ricoveri per truppa in caverna consentirono agli austriaci di resistere fino al 23 maggio 1917, quando con la Decima Battaglia d’Isonzo gli italiani riuscirono a superare la linea, con un’azione combinata dalle Quote 144 e 208 sud, e il fronte avanzò verso Medeazza e la linea del Flondar.
La formidabile resistenza da parte dell’imperialregio esercito in questo settore del fronte era da attribuire ad una nuova tattica difensiva introdotta dal Comando austroungarico nel periodo 1916-1917.
Un'innovativa strategia di combattimento ideata dall'esercito francese, ma messa in pratica dall’esercito tedesco sul fronte occidentale delle fiandre, chiamata difesa elastica.
Sul fronte carsico gli austriaci la ribattezzarono Hundertmeterlinie (linea a cento metri) una tecnica di difesa e contrattacco, che si articolava su due linee.
Quando iniziava l’attacco italiano, preceduto dalla fase preparatoria delle artiglierie, sulla prima linea avanzata, gli austro-ungarici lasciavano soltanto pochi soldati con compiti di vedetta, mentre sulla seconda linea distante un centinaio di metri si ammassavano le truppe, al riparo in sicuri ricoveri scavati nelle viscere della montagna.
Appena terminato il bombardamento, in concomitanza all’inizio dell’assalto della fanteria italiana, gli austroungarici rioccupavano la prima linea, fronteggiando l’attacco.
Con questa nuova tecnica, gli imperiali non si accanivano a resistere sulla prima linea, ma cercavano inizialmente di frenare lo slancio dell’assalto che lentamente tendeva ad esaurirsi in profondità, e in seguito ripartivano al contrattacco.