MONTE PODGORA (GORIZIA)


Battaglia del Podgora
parte del fronte italiano della prima guerra mondiale
Obelisco del Calvario del Podgora
Luogo Piedimonte del Calvario (in passato nota come Podgora), località di Gorizia
Comandanti
Effettivi
1600 uomini 400 uomini
Perdite
53 morti
143 feriti
11 dispersi


Il monte Calvario o Podgora o Kalvarija in sloveno a 241 m s.l.m è una collina ad ovest di Gorizia, sulla sponda destra del fiume Isonzo.

La battaglia del Podgora è un episodio della seconda battaglia dell'Isonzo svoltosi il 19 luglio 1915 alla quota 240 del monte Podgora, e che impegnò in combattimento il Reggimento Carabinieri Reali oltre a diversi reggimenti del Regio Esercito italiano.

La notte del 6 luglio 1915 il 2º e 3º battaglione del Reggimento Carabinieri Reali, (costituito nel maggio precedente contava 65 ufficiali e 2500 tra sottufficiali e truppa), ostacolati dal fuoco nemico, raggiunsero la quota 240 del Podgora provenienti da Cormons.

Secondo gli ordini dovevano irrompere da un varco che le truppe della 2ª Armata avrebbero dovuto aprire sul fronte di Gorizia nel quadro della Seconda battaglia dell'Isonzo, penetrandovi per primi e costituendo subito sbarramenti, posti di blocco, controlli e servizi vari.

Loro momentaneo compito era dare il cambio al 36º Reggimento fanteria che già teneva la posizione con una forza di uomini quasi doppia rispetto ai 1600 Carabinieri che costituivano i due battaglioni.

Questo tratto di fronte sul Podgora era diviso in due settori di circa di 200 metri:

  • a destra vi era una prima trincea coperta a 150 metri da quella nemica.
  • In posizione arretrata di 50 metri ve ne era una seconda
  • a sinistra vi era un'unica trincea scoperta.

Chi non era in trincea era sistemato in ricoveri di fortuna in posizioni più arretrate.

Gli austroungarici dominavano nettamente la posizione con le loro artiglierie poste oltre l'Isonzo, sul monte San Gabriele sul monte San Daniele e sul monte Santo, nonché col fuoco coperto di fucileria e mitragliatrici.

I Carabinieri potevano contare su un solo pezzo di artiglieria someggiata, su due batterie da 75 mm ed una sezione di mitragliatrici aggregata dal 36º Reggimento fanteria.
La situazione era molto difficile anche dal punto di vista sanitario, visto che la zona era ricoperta di cadaveri insepolti ed escrementi, e il 10 luglio cominciarono a registrarsi i primi casi di gastroenterite (e in seguito anche di colera).
Ciononostante, in previsione di un attacco alle posizioni nemiche i Carabinieri, insieme a genieri e minatori dell'esercito, cominciarono subito a scavare camminamenti di approccio per avvicinarsi al nemico.

Il 18 luglio giunse l'ordine di attaccare il giorno successivo.

Nel frattempo il fuoco nemico, che colpiva senza sosta insieme alle malattie, aveva assottigliato sensibilmente le file dei Carabinieri che a questo punto potevano contare su 1333 uomini.

Il piano di attacco prevedeva per il Reggimento Carabinieri Reali prima di appoggiare l'avanzata dell'11º Reggimento fanteria "Casale" quindi, alle ore 11:00, di assaltare la cima dopo breve preparazione di artiglieria.

La battaglia del 19 luglio

Il 18 luglio, coi primi raggi solari, furono approntate una serie di azioni preparatorie:

  • ore 6.30: 10 carabinieri e 10 genieri effettuarono una sortita per distruggere i reticolati nemici con l'impiego tubi di gelatina e aprirono un varco di una decina di metri.
  • Gli austroungarici risposero con un lancio di bombe a mano che uccisero un carabiniere e un geniere e ferirono un altro carabiniere.
  • ore 13.00: dopo di loro, una squadra di Carabinieri volontari, al comando di un vice brigadiere, aprì con le pinze un altro varco nei reticolati.

Alle 10:20 del 19.07 iniziò l'attacco vero e proprio con la batteria da 75 mm a colpire le trincee nemiche di sinistra dove erano poste le mitragliatrici.
Nel frattempo il 3º Battaglione dispose le sue tre compagnie su tre linee. Il 2º Battaglione, rinforzato da una compagnia del 36º Reggimento fanteria, in parte appoggiò il 3º, il resto fu posto di riserva con il compito di appoggiare con il proprio fuoco l'attacco dell'adiacente 12º Reggimento fanteria (l'azione di questo però fallì, pur inutilmente reiterata anche due giorni dopo).

Come previsto, alle ore 11:00, l'8ª Compagnia, al comando del capitano Vallaro, balzò dalla trincea, seguita a 30 metri dalla 7ª del tenente Losco e, ad altri 30 metri, dalla 9ª del capitano Lazari.

Contro i Carabinieri si scatenò immediatamente un intenso fuoco nemico che rallentò fino ad arrestare l'avanzata della 7ª Compagnia, rimasta ben presto priva del comandante, ferito a morte (il tenente Losco va ricordato come il primo ufficiale dei Carabinieri morto in battaglia durante la prima guerra mondiale).
Alcuni elementi dell'8ª Compagnia riuscirono a sopravanzare i compagni della 7ª, attestandosi a ridosso dei reticolati nemici.

La 9ª Compagnia a sua volta riuscì ad avanzare fino dove già la 7ª e l'8ª erano state fermate pur subendo gravi perdite (fra cui lo stesso capitano Lazari, gravemente ferito).

Riorganizzati i superstiti, venne lanciato un nuovo attacco alla baionetta che portò i Carabinieri a pochi metri dai reticolati nemici, in una piega del terreno.

Ma l'azione costò cara e la posizione si rivelò assai precaria tanto che dopo pochi minuti furono feriti, tra gli altri, il tenente colonnello Pranzetti e i tenenti Parziale e Struffi.

Le gravi perdite impedirono al 3º Battaglione di continuare l'azione così alle 13:00 entrarono in azione le compagnie 4ª e 5ª del 2º Battaglione.

L'intenso fuoco nemico però consentì solo a pochi elementi di ricongiungersi con i sopravvissuti del 3º Battaglione:

fra i primi feriti furono i tenenti De Dominicis e Ciuffoletti. In rincalzo intervenne anche il 2º battaglione del 36º Reggimento fanteria, che non riuscì però ad avanzare.

Nel frattempo sulla sinistra il nemico aveva ricacciato un attacco del 1º Reggimento fanteria, riuscendo anche a conquistare una posizione favorevole per colpire alle spalle i Carabinieri giunti sotto i reticolati.

Vista la situazione, alle 15:00 ai Carabinieri fu ordinato di attestarsi alla meglio sulle posizioni così a caro prezzo conquistate e prepararsi per sostenere un eventuale contrattacco nemico.

Si progettò anche di rinnovare l'attacco con l'intervento il 2º battaglione del 36º Reggimento fanteria, ma pochi minuti prima dell'ora stabilita l'ordine venne revocato dal comando del VI Corpo d'armata perché, in considerazione delle perdite già subite, si reputò necessario preparare il nuovo attacco con un più efficace fuoco di artiglieria.

Alla quota 240 alle 18:00 fu compiuto lo sgombero dei feriti. Approfittando dell'oscurità della notte, alcuni Carabinieri volontari si occuparono del recupero e della sepoltura dei caduti.

La giornata si concluse con 53 morti, 143 feriti ed 11 dispersi. Il 36º reggimento fanteria, in linea sul Podgora già dal 3 giugno, ebbe in questi primi giorni di conflitto 58 caduti, 286 feriti e 14 dispersi.

I giorni successivi

Le perdite fra morti e feriti della battaglia ammontarono a 206 uomini, il 16% degli effettivi, una percentuale scarsa rispetto al resto delle perdite subite negli stessi giorni in altre parti del fronte.

Le forze messe in campo sul Podgora da parte austroungarica erano relativamente poche, principalmente riservisti dalmati e triestini.

Nonostante ciò, fu dato molto risalto da parte dei comandi italiani alle azioni intraprese, con distribuzione di numerosi elogi agli ufficiali e medaglie.

Il Podgora fu conquistato dai fanti della brigata Casale (11º e 12º reggimento Fanteria) nel corso della sesta battaglia dell'Isonzo, che portò alla conquista di Gorizia, il 6 agosto 1916.


Gli spettri de battaglia dell'Isonzo


Francesco Bucci racconta bombardamentiorroricombattimentiferitiassaltimorti a Monte Podgora (GO) il 17 ottobre 1915

 

Lettere e appunti rielaborati in una memoria: così Francesco Bucci racconta la Terza Battaglia dell’Isonzo, combattuta al fianco di molti commilitoni caduti sulle pendici del Monte Podgora, di fronte a Gorizia.

17 Ottobre 1915 – Carissimo padre, da questa lettera in poi e se avrò, come spero sempre, la fortuna di mandarvene altre, assistetemi costantemente notte e giorno col vostro pensiero e col vostro cuore. Anch'io non mi stancherò mai di pensare a voi tutti massimamente, nei momenti difficili. Spero che capirete tutto. Io non posso dirvi altro.

31 Ottobre 1915 – Carissimo padre, qui si lotta da leoni, le difficoltà sono molte; speriamo, anzi noi abbiamo fede di superarle. Noi dobbiamo vincere a tutti i costi. Il 2° Fanteria ha già sostenuto la prima cruenta lotta invano: già arrivano i feriti indietro e lo spettacolo è raccapricciante: uno di essi, ferito alla testa, accompagnato a braccietto da due portaferiti piange e vuol tornare indietro: è diventato pazzo. Un capitano, nostro conoscente, torna indietro piangendo e ci parla di un reparto distrutto, in una trinceretta da esso conquistata e poi fata saltare in aria, perché minata in precedenza dal nemico.

1 Novembre 1915 - Ed ora è la volta nostra.
[…]
Siamo nei ricoveri a ridosso delle trincee. La fanghiglia vi abbonda: camminiamo su strati di coperte da campo e mantelline disseminate per terra, fradice e da esse esala un puzzo di fermentazione. L'ordine di attacco non tarda a farci fuori da queste caverne dell'epoca dell'uomo primitivo. Usciamo dalle trincee avanzate allo sbocco di un breve camminamento costruito al di là di esse.
[…]

Facciamo una diecina di metri in sù e siamo in terreno neutro fra le nostre e le trincee nemiche. Ci ammassiamo in un breve tratto i 3 battaglioni, come branchi di pecore. Ma la spia del Sabotino ci scopre, tuona il cannone e ben presto un diluvio di proiettili ci flagella. E' indietro il mio Maggiore Valentinis, pallido in preda alla convulsione! Quale doccia fredda, quale previsione di funeste conseguenze per noi: queste sue gravi parole, che mai ho sentito dalla bocca di tale valoroso ufficiale, “Ritiratevi, ragazzi, ritiratevi” . Rimango muto, non credo a me stesso, mi par di sognare!... “Come, il maggiore ci dice di ritiraci, prevede di certo un disastro; deve saper qualche cosa che noi ignoriamo, e dunque cosa facciamo?” Il mio Capitano Molendi è in preda ad una depressione di animo fortissima e non sa prendere una decisione, non parla, è pallido in volto. E il trombettiere di dietro suona disperatamente l'Avanti di continuo e noi stiamo là stesi per terra e il nemico continua la sua azione disgregatrice nelle nostre fila. Arriva la sera. L'aria è pungente, pioviggina. Stiamo ammassati in breve spazio l'uno sull'altro: non c'è pollice di terra dove non vi sia un soldato. L'uniforme ammasso di carne fa da buon bersaglio al nemico! Rabbrividisco a dirlo! Al disotto di me, nella tera fangosa, sporge il sedere di un morto del 2° Fanteria di una diecina di giorni prima: il resto del corpo è sepolto. Alla mia destra, ho il collega, sottotenente Scotti, toscano. L'aria è pestilenziale, c'è nell'atmosfera un odore forte di carne putrefatta. Durante il giorno i cucinieri ci portano la carne a lesso in sacchetti e delle arance; ma la carne avvicinata alla bocca fa l'impressione che sia imputridita. Prendiamo solo qualche arancia, per bagnarci la gola riarsa. Signori, così passiamo il 1° novembre, giorno della festa di tutti i Santi. Domani è la commemorazione dei morti, chissà chi di noi sarà commemorato!... Passiamo una notte d'inferno: la più terribile per me finora. Racchiusi nel breve spazio siamo costretti a star rannicchiati nella terra. La medesima posizione che ci obbliga a tener le gambe ritirate ci causa dei crampi fortissimi ogni tanto agli arti inferiori, per cui siamo costretti di tanto in tanto, al di fuori della nostra volontà a distenderci simultaneamente e violentemente le estremità del nostro corpo, con conseguenti fortissimi colpi di tacchi ferrati ai compagni di dietro. “Scotti” dico spesso al mio collega “fammi il piacere scostati un po': sono stanco a star sempre così!. L'amico comprende, ma non può. Alla sua destra ha un altro soldato, per cui non può muoversi e poi l'equipaggiamento glielo impedisce; pur tuttavia adagio, adagio scambia il posto alla baionetta, alla borraccia, alla maschera antigas, alle giberne, al tascapane e piano piano riesce a voltarsi. Ah! E mando un respirone di sollievo: parmi di rivivere e mi volto a destra, rotolandomi nel fango”. Ma la medesima posizione prolungata stanca anche il mio amico che non tarda a pregarmi: “Bucci, fammi il piacere, girati un po' tu a sinistra”. Così passiamo l'intera notte... qualche colpo di fucile, qualche raffica di mitragliatrice, qualche lampo e tuono improvviso dei proiettili dal Sabotino: la pioggia sottile, gelida, penetrante corona la triste scena.
[…]

L'alba ci fa rivedere l'enorme branco di pecore infangate che noi formiamo: a poca distanza da me, due soldati accovacciati sembra che stiano conversando ancora, poggiati l'un l'altro: ma la morte nella notte ha troncato il loro dialogo ed essi ora son lì, trafitti dall'istesso piombo, da un'istessa arma.
[…]

Passiamo ancora tutto il giorno così in quella fangaia, siam tutt'uno con la terra: noi non siamo più uomini, ma siamo i bruchi più umili, i più abietti che la gleba rinserra! Le nostre vesti, il nostro equipaggiamento sono un ammasso di fango: ugualmente i nostri fucili, arrugginiti, impiastrati, non funzionano più; per tirare qualche colpo bisogna battere l'otturatore con la vanghetta; guardiamo nel viso i compagni: sembrano spettri; essi guardano noi; sembriamo spettri a loro.
[…]

Nel meriggio giunge l'ordine di attaccare: si preparano i primi plotoni; io mi sposto e col mio attendente stiamo rannicchiati in una buca di granata.

Ma il Sabotino, come sempre, spia scruta, segue i nostri movimenti e un diluvio di proiettili si abbatte ancora su di noi, come una bufera infernale. I colpi battono il terreno palmo a palmo.

Ci guardiamo in faccia io e l'ordinanza. “Oggi” dico, “non vedremo la sera. Come possiamo salvarci? Ma la serenità nell'anima mia; il quadro della famiglia è nella mia visione; forse l'ombra e lo spirito di mamma mia, morta, sono al mio fianco e mi proteggono. La furia delle granate imperversa, l'atmosfera è pervasa da una fitta nebbia di fumo, l'aria è pestilenziale eppure in questo inferno, rimaniamo miracolosamente illesi. Ecco i primi reparti che avanzano in catena.

E' la magnifica Compagnia del baldo Capitano Lomanto. Costui mi aveva detto il giorno avanti: “Ho un brutto presentimento, che io domani debba morire”

I suoi fieri soldati sembrano che a nozze vadano e non a morte! Sfilano muti, in perfetto ordine, come in una piazza d'armi i fantaccini che idolatrano il loro ventiduenne Comandante.

Mi affascina l'audacia e la serenità con cui il mio intimo amico va verso la morte: Mi alzo e la seguo. “Lomando, vengo anch'io”.

Proseguiamo uniti a braccetto, occupiamo una trinceretta avanzata nemica: vi sostiamo pochi istanti: non ci separa che una piccola valletta dalla linea principale avversaria. Ma ecco che il Capitano balza fuori sul piano della scarpata: ha la pistola in pugno, i neri suoi occhi scintillano come stelle. “Avanti la mia 1° Compagnia” è più non dice. Cade fulminato dal piombo nemico e batte la nuca per terra. Volteggia poche volte le pupille senza sguardo.

L'olocausto è compiuto!

Lomanto è morto....

La sua bell'anima raggiunge la gloria del Cielo!...

La sfiducia ci assale, ci assale lo sconforto. Racimoliamo parti della Compagnia e la riconduco indietro, mentre un'altra parte vien fatta prigioniera.

Davanti a  noi l'ammasso informe dell'intero Reggimento si leva e batte in ritirata anch'esso.

Mi volto indietro: 3 austriaci avvolti nei loro lunghi pastrani bigi assistono meravigliati, estatici, a questa turba che rinuncia alla vittoria.

Tace ormai il Sabotino, sazio di tanto sangue italiano; ma all'improvviso cento bocche da fuoco della nostra artiglieria tuonano all'istante ad un unico cenno e battono furiosamente la zona mentre tra le due linee di trincee, per impedire agli austriaci di sferrare un eventuale contrattacco. Cadono i nostri fulminati dal medesimo nostro tiro: il momento è critico, il macello cresce.

Raggiungiamo la nostra linea. Il Colonnello è in preda ad un pianto irrefrenabile. Gli diciamo che avvisi l'artiglieria perché allunghi il tiro ed egli segnala personalmente con una pistola Very, ma invano. A sera, quando tutti han battuto in ritirata si sentono ancora per l'atmosfera ammorbata ripetutamente gli urli di “Savoia” E' il Tenente Destino rimasto su col suo plotone che si lusinga ancora di conquistare il Podgora alla baionetta; finché è ferito e torna indietro come un fiero leone battuto.

Il Colonnello intanto chiama il Maggiore Valentinis (comandante I° battaglione, 1° fanteria, n.d.r.) e gli dice: “Lei mi deve salvare la situazione. Si rechi con un reparto a riconquistare il Fortino”. Le ombre della sera scendono su di noi. Il cielo apre le sue cateratte ed un temporale di pioggia ricolma i camminamenti e le trincee: i lampi rompono sinistramente l'oscurità sopravvenuta, tuoni e scoppi di proiettili lacerano l'aria. I feriti gridano aiuto, ma nessuno può andarli a prendere. Passo così la notte nella trincea: ho sperduto l'attendente. Ho a fianco pochi soldati e sono sicuro che tutti i reparti occupino la linea. Uno di questi trema dal freddo, si lagna e i suoi gomiti battono alle mie reni, gli domando chi sia, ma non mi risponde, ne ho compassione e lo ricopro con la mia mantella fradicia di acqua e fango. L'alba rischiara la posizione. Guardo a desta e a sinistra: nessuno! Rabbrividisco e tremo al pensare di aver passata una notte quasi solo in trincea.
Mi avvio giù verso i ricoveri. Si sta facendo l'appello e già mi portano per morto. Non ci reggiamo in piedi, sembriamo dei cadaveri e dei folli. I reparti sono assottigliati. Bilancio della giornata: mancano del nostro Reggimento 800 tra morti e feriti!...


Un rumore e siamo morti


Paolo Ciotti racconta nemiciazioni a Monte Podgora, monte Grafenberg quota 206 (GO) il 28 giugno 1916

 

È la notte del 28 giugno 1916 sulle trincee di fronte al monte Grafenberg, Gorizia. La notte in cui il sottotenente Ciotti si guadagna una medaglia di bronzo con questa motivazione: "Sottotenente di complemento del 116° Reggimento Fanteria, incaricato con una grossa pattuglia di collocare e fare brillare, sotto i reticolati nemici, sei tubi di gelatina esplosiva allo scopo di aprire dei varchi per il passaggio delle nostre truppe, con felice esito portava a compimento il mandato ricevuto dimostrando nella sua esecuzione perizia, fermezza e e valore personale". Grafenberg (quota 206) 28 giugno 1916

Imprecai, protestati, perché avendo vegliato fino alle due, ero stanco, ma tutto fu inutile. Riproduco l'ordine che  il Comando del Reggimento emanò al Battaglione e per mezzo di quello, dalla 4a Compagnia a me: “Il Comando di linea ha ordinato che stasera due pattuglie della forza di 25 a 25 uomini, comandante da Ufficiali, siano fornite da codesto Battaglione. Una di dette pattuglie punterà al Naso Podgora e l'altra al Grafenberg. Le pattuglie usciranno contemporaneamente dalla trincea alle ore 0,30 precise. Saranno provviste di sei tubi di gelatina ciascuna, che dovranno far brillare nei reticolati nemici. Eseguita la loro missione, rientreranno sollecitamente. Giunte a conveniente distanza nel ritorno, spareranno qualche colpo di pistola Verry a stelle bianche, per semplice avviso a codesto Comando che dovrà subito darne a questo comunicazione telefonica. Questo Comando provvederà così a far aprire il fuoco di artiglieria contro le posizioni nemiche guernite. I tubi di gelatina saranno inviati a codesto Comando. Per norma uguale operazione sarà compiuta anche dal secondo Battaglione coi seguenti direttivi: Sbarramento Osteria quota 160. Firmato Leoncini.”
P.S. Preavvisare pattuglia che durante operazione, nostri medi calibri agiranno contro linee nemiche.

Ricevetti questo ordine alle 23,35. Era chiaro, preciso e non ammetteva schiarimenti. Io ero libero di scegliere gli uomini. Radunai infatti il mio plotone e chiesi chi volesse venire con me, volontario. Si fecero avanti 13 o 14 soldati e gli altri li scelsi io. Erano uomini entusiasti e di provato valore. Un caporale mi rimarrà sempre sempre impresso, perché si fece avanti per primo dicendo: - “Dove va Lei, Signor Tenente, verrò sempre anch'io”. Era questa una attestazione di affetto che mi commosse. Il caporale si chiamava Bazzano ed era già venuto con me all'assalto alla baionetta sul Trentino.

A mezzanotte arrivarono i tubi di gelatina lunghi più di due metri ciascuno, per cui, per il trasporto, occorrevano due persone per tubo. Partimmo alle 0,30 precise. Venne anche il mio attendente Colombo, che volle seguirmi ad ogni costo. La notte era molto oscura e faceva un buio pesto. Uscimmo in fila indiana dallo sbocco numero 13, coi fucili carichi, ma in posizione di sicurezza e con baionette innastate. Quando fummo fuori, il cuore cominciò a battere forte e camminavamo adagio adagio, fermandoci ogni tanto per riposare gli uomini che portavano i tubi e per cercare di non sbagliare la strada. Perché ciò era facile; e difatti ci accorgemmo in principio di aver presa la direzione del “Naso del Podgora” anziché quella del Grafenberg. Alle volte incespicavamo nei cespugli, allora foltissimi, ed erano zittii ed imprecazioni da parte mia e dei soldati, perché bisognava far silenzio e tendere spesso l'orecchio per accertarci che  nessuna pattuglia nemica fosse in giro e si incontrasse con la nostra. Temevamo anche che le pattuglie uscite contemporaneamente con noi a destra e a sinistra, deviassero dalla vera strada e si incontrassero con la nostra. Se ciò fosse avvenuto, chi avrebbe potuto distinguerle nell'oscurità, sebbene avessimo la parola d'ordine per riconoscimento?

Continuammo a camminare lentamente, finché infilammo un sentiero buono e che io già conoscevo per averlo percorso di giorno poco prima, sempre in servizio di pattuglia. C'era lì vicino una vecchia trincea abbandonata dove lasciai dieci uomini per essere sicuro, proseguendo, di non aver sorprese alle spalle. Vi rimase anche il mio attendente Colombo, perché avendo egli già avuto un fratello morto in guerra nel 1915, volli che non si esponesse troppo seguendomi ancora. Io invece proseguii col resto della Pattuglia, non senza aver dato istruzione agli uomini, che in caso di fucileria da parte nostra, rimanessero sul posto e ci proteggessero se avessimo dovuto ripiegare. Quando con gli uomini che portavano i sei tubi, ripresi a strisciare, non so descrivere l'ansia di quei momenti. Come già sapevo, i medi calibri nostri avevano iniziato il fuoco contro la linea nemica, ma qualche colpo era corto per cui correvamo anche il pericolo di essere uccisi dalle nostre artiglierie. Infatti, certi proiettili cadevano vicinissimi o passavano bassi; era un orgasmo continuo. Avevamo pure timore che le vedette austriache, che non sapevamo se fossero collocate fuori o dentro la loro linea, si fossero accorte della nostra presenza e ci tendessero una imboscata. Ma pur proseguimmo fermandoci ogni tanto dentro le buche di granate, talune di queste enormi e che incontravamo di frequente.

Finalmente giungemmo in vista dei primi reticolati nemici, che erano formati in gran parte da cavalli di frisia. C'era silenzio, le vedette austriache dovevano essere in trincea perché restammo in ascolto un po' di tempo senza sentire rumore. Ci decidemmo infine di compiere l'operazione che avrebbe potuto procurarci la morte poco dopo. Strisciando sul terreno come rettili, deponemmo i sei tubi in due gruppi di tre sotto i reticolati, legandoli fra loro. Indi il caporale Bazzano, poiché tutti eravamo titubanti prima di accenderli, si rivolse a me dicendo: - “Signor Tenente, se Lei mi promette di non muoversi e di assistermi nel caso dovesse succedermi qualche disgrazia, li accendo io.” Quella frase poteva risparmiarsela, perché eravamo lì apposta per soccorrerci a vicenda, ma in certi momenti, che possono essere anche gli ultimi della vita di un uomo, tutto si perdona. E il caporale Bazzano andò avanti e noi rimanemmo a qualche metro indietro, stesi dentro le escavazioni fatte dalle granate. Il Bazzano si raggomitolò, e protetto dalla mantellina che l'avvolgeva, accese una sigaretta. L'operazione preliminare si svolse bene perché la luce non fu vista. Con la sigaretta diede fuoco alla miccia, indi si ritirò gettandosi a terra dove ero io. Attendemmo con un'ansia indicibile; ed io pensai subito alla mia possibile imminente morte su quelle zolle dove ero appiattito, su quel tratto di terreno occupato dal nemico e irto di reticolati che intravedevo nella chiara notte stellata.

Dopo alcuni secondi, una esplosione formidabile seguita dal lancio di palletti, di filo di ferro, di sassi ecc., ci fece sussultare. Gli austriaci dovettero rimanere sorpresi, perché non aprirono subito il fuoco, ma noi invece udimmo, dopo circa una ventina di secondi, uno squillo di tromba (l'allarme nemico) e subito cominciò da parte del nemico un intenso fuoco di fucileria. Eravamo in orgasmo e non ostante la pioggia dei rottami che inseguito all'esplosione ancora continuava, e la fucileria che diveniva sempre più intensa, poco prudentemente ci alzammo, e pur di uscire da quella zona di morte, ci demmo a correre come pazzi giù per la china. Fu una imprudenza che ci poteva costar cara, ma fortunatamente siccome eravamo in discesa e la trincea nemica rimaneva sul cocuzzolo, le pallottole passavano alte fischiando lugubremente e rabbiose, sfondando gli alberi che lasciavano cadere le foglie e i ramoscelli su di noi. Se avessimo conservato il sangue freddo, avremmo dovuto rimanere supini sul terreno senza fiatare, ma come ragionare in quell'istante? E se il nemico fosse uscito dalla trincea, inferocito? Si sarebbe certamente vendicato, facendo orribile scempio di noi. Meglio andar via, ora che la missione era compiuta, correre verso le nostre linee! Giunti che fummo alla trincea ove avevo lasciato i dieci uomini di protezione, ci contammo. Ne mancava qualcuno, che poco dopo arrivò. Il nemico aveva cessato il fuoco. Io sparai qualche colpo con la pista Verry, a stelle bianche (come segnale che l'operazione era riuscita) e allora la nostra artiglieria aprì un fuoco d'inferno sul Grafenberg.

Poveri austriaci! Quella notte dovettero passarla molto male e con perdite, se, come tendeva il nostro scopo, guernivano la trincea con truppe in seguito all'allarme. Noi eravamo contenti, intimamente soddisfatti di essere riusciti a compiere una operazione che gli altri, precedentemente, non erano stati capaci.

Rientrammo nelle nostre linee verso le 4, mentre albeggiava.


FOTO MONTE PODGORA


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Sul Monte Podgora 1915



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