In una rigida mattina del gennaio 1916, mentre stavamo godendoci un po’ di riposo invernale a Lavariano, a breve distanza da Udine, giunse improvviso un ordine di partenza per Cormons: tali movimenti repentini erano indizio certo di azioni di sorpresa eseguite dal nemico sul nostro fronte.
La notte precedente si era sentito un forte bombardamento sulle linee della 2. Armata, ma nessuna notizia era arrivata fino a noi.
Però le truppe a riposo seguivano con trepidazione gli avvenimenti, e ogni qualvolta sentivano rombar il cannone, si disponevano in cuor loro a partire.
Distribuito il rancio, i vari reparti si incolonnarono e si misero in marcia: gli aiutanti maggiori precedettero in bicicletta con il mandato di trovar il terreno adatto per l’accampamento a Subida, a un chilometro circa da Cormons.
Arrivati sul luogo, trovammo due battaglioni di bersaglieri ciclisti, chiamati anch’essi in rinforzo alle truppe di linea.
Che cosa era successo di grave? Gli austriaci avevano ricacciati i nostri dalle posizioni di Oslavia ed ora su quella collina si svolgeva una lotta accanita. Passammo la notte attendati e il giorno dopo (17 gennaio) raggiungemmo Medana, paesello abitato da pochi slavi.
Alle tre del mattino successivo partii con un muletto per andar a riconoscere le posizioni che doveva occupare nella notte il mio battaglione.
Non avevo e non ho le doti di un buon cavalcatore: per questo mi lasciavo trascinare dal poco docile animale, il quale, come la mula di don Abbondio, si prendeva il gusto matto di camminare sull’orlo della strada che fiancheggia i burroni
. Dopo un paio d’ore di una marcia affannosa, ritenni opportuno scendere dal cocciuto quadrupede e trascinarmelo dietro; giunto a Vallerisce, l’affidai alla custodia di un soldato di sanità e continuai solo e più spedito il mio viaggio.
Da Pri Fabrisu al così detto Anfiteatro di Oslavia, la via era esposta al nemico che dal Sabotino dominava ogni nostra mossa.
Al sorger del sole potei giungere al Vallone della Morte, così chiamato dai nostri soldati per l’incredibile ecatombe di vite umane avvenuta in quella melma infernale.
Conteneva il letto di un torrente che scorreva in periodi di abbondanti piogge, rendendo per tal modo difficile il passaggio alle nostre truppe che restavano isolate e quasi aggrappate alle pendici del colle di Oslavia.
Dal Vallone della Morte ai ruderi della triste località erano sparsi i segni più spaventosi della battaglia: soldati uccisi e quasi interamente coperti dal fango o calpestati dai compagni che nella notte eran mossi all’attacco della posizione perduta; miseri resti umani lacerati dai colpi dei grossi calibri; fucili e mitragliatrici abbandonate o perché inservibili o perché chi se ne serviva era caduto sul campo; dovunque munizioni, oggetti di corredo, viveri, grovigli di ferro spinoso, bombe inesplose.
Lungo un camminamento due pietosi portaferiti giacevano al suolo al lato della barella, colpiti da pallottole di shrapnel, mentre cercavano di salvare un ufficiale ferito che poi trovò con loro la morte. E questo triste spettacolo si offriva allo sguardo dei nuovi accorrenti, i quali, salendo incontro al nemico, pensavano che di lì a poco potevano accrescere con le loro carni a brandelli l’orrore e lo strazio di quella misera scena.
Non esistevano più trincee, sconvolte dalle granate e dallo scoppio degli esplosivi: i soldati, frammisti nei vari reparti e appartenenti a diversi reggimenti, s’erano rannicchiati in piccole tane e giacevan affranti dalla lunga lotta; ogni piccolo movimento era avvertito dall’avversario che dominava dall’alto delle sue formidabili posizioni; l’artiglieria austriaca del Sabotino con fuoco d’infilata distruggeva in pochi minuti le fatiche assidue di scavo dei nostri poveri fanti.
Da parecchi mesi sull’altura di Oslavia durava la carneficina. Spesso i nostri zappatori tracciavano una trincea o un camminamento, ma nell’eseguire il lavoro erano costretti a deviare dal piano stabilito perché le vanghe o i picconi incontravano miserandi resti umani; e quel suolo, ch’era stato già fertile di vigne e di frutteti, ora emanava un nauseabondo odore di carne in sfacelo: Oslavia era tutto un cimitero di ignoti, né la pietà dei compagni poteva manifestarsi verso i caduti, là dove anche il ferito doveva
spesso giacere abbandonato in attesa della morte.
Italiani e austriaci dormivano insieme sotto le macerie, talora sepolti dalle granate mentre si contendevano per la centesima volta pochi palmi di terreno intriso di sangue.